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samedi, 29 janvier 2011

Alexander Slavros - Portrait of Ernst Jünger

Portrait of Ernst Jünger by Alexander Slavros
 
 

samedi, 15 janvier 2011

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler

Francesco Lamendola

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Nato a Blankenburg, nel Magdeburgo, nel 1880 e morto a Monaco nel 1936 – in buon punto per evitare le conseguenze del suo rifiuto di approvare il violento antisemitismo del regime hitleriano -, Oswald Spengler è stato uno dei filosofi più discussi e controversi del XX secolo, suscitando fervidi entusiasmi e ripulse totali e irrevocabili. Per alcuni egli è stato il teorico del nazionalsocialismo, nella misura in cui – pur non aderendo formalmente ad esso – aveva sostenuto la necessità di instaurare un forte potere militare e affermato la superiorità della razza «bianca» e della preponderanza della Germania nel quadro politico mondiale. Altri hanno visto in lui il maggiore erede di Nietzsche, della sua fedeltà alla terra e della volontà di potenza, oltre che un continuatore del relativismo storicistico di Dilthey e, quindi, il legittimo continuatore della tradizione filosofica tedesca di fine Ottocento.

La sua concezione organicistica delle civiltà, secondo la quale ogni civiltà è equiparabile a un essere vivente che nasce, si sviluppa, decade (nella fase della «civilizzazione») e, da ultimo, muore, apparve – ed era – una tipica forma di biologismo sociale, dominata com’era da una darwiniana strength for life, ove le civiltà vecchie e deboli devono cedere il passo a quelle giovani e forti. Concezione che a molti non piacque, e che tuttavia appariva fondata su cospicui elementi di realtà oggettiva, e che tanto più difficile sembrava smentire quanto più l’Autore dispiegava, per sostenerla, una immensa congerie di osservazioni tratte dalla musica, dall’architettura, dalla storia delle religioni e da quella dell’economia e della tecnica.

Piacque, soprattutto ai Tedeschi, l’implicito machiavellismo sotteso a tutta l’opera: per cui, nelle convulsioni della disfatta al termine della prima guerra mondiale (Il tramonto dell’Occidente venne pubblicato tra il 1918 e il 1922, ossia negli anni più bui mai vissuti sino ad allora dalla Germania), era possibile intravedere una ripresa e, forse, persino una futura rivincita, a patto di sapere accettare il proprio destino e di percorrere sino in fondo la strada tracciata dalle presenti forze storiche, materiali non meno che spirituali.

Otto, secondo Spengler, sono le civiltà che si sono succedute, dall’origine ad oggi, nel panorama della storia mondiale, sviluppando quei «cicli di cultura» i quali tendono a ripetersi con caratteristiche sostanzialmente analoghe, pur nella diversità delle situazioni specifiche. Esse sono state la babilonese, l’egiziana, la indiana, la cinese, la greco-romana (o «apollinea»), l’araba (o «magica»), quella dei Maya e, infine, l’occidentale (che Spengler definisce «faustiana»). Si sono avvicendante secondo una cadenza di circa mille anni, soggiacendo a leggi in tutto e per tutto simili a quelle degli organismi viventi e finendo per estinguersi e scomparire completamente – tranne la nostra, che è destinata, però, a concludersi come le altre.

Si suole affermare che qualcosa di una civiltà continua a permanere anche al di là di essa, ma è un errore. Ogni civiltà è destinata a una fine totale, che trascina con sé anche i valori da essa emanati; nessun valore può sopravvivere al di là della civiltà che lo ha prodotto. I valori sono deperibili, proprio come le civiltà; possono, semmai, essere sostituiti da altri valori, frutto di altre civiltà. Non esistono valori assoluti, così come non esistono verità assolute; ogni verità è relativa al contesto della civiltà che la pone e, esauritasi quest’ultima, anche il concetto di verità si sbriciola, si frantuma. La stessa idea di progresso, non è altro che una illusione.

Quanto alla civiltà occidentale, essa è ormai quasi giunta al termine del proprio ciclo vitale e, quindi, alla successiva, inevitabile estinzione: non resta che prenderne atto e seguire il destino che ci si prepara, rinunciando alla chimera di poter tramandare valori imperituri o di poter mutare il corso della storia, bensì sfruttando l’ultimo guizzo di luce prima del crepuscolo.

Ma già si fa avanti la prossima civiltà, che prenderà il posto di quella occidentale: la civiltà russa, che dominerà a sua volta la scena della storia mondiale, finché non avrà esaurito il suo ciclo e scomparirà a sua volta.

La civiltà occidentale, dunque, non ha nulla di speciale, in se stessa, perché si debba pensare che possa sfuggire al destino di tutte le altre civiltà. Anzi, essa è già entrata, e da tempo, nella fase della civilizzazione, caratterizzata dal gigantismo delle sue creazioni esteriori e dal progressivo esaurimento del suo spirito vitale, della sua «anima».

D’altra parte, negli ultimi secoli della sua vicenda millenaria si è prodotto un evento finora sconosciuto alla storia dell’umanità: il sopravvento della tecnica, della macchina, sulla natura e sull’uomo stesso, che ne è divenuto lo schiavo. È nata una figura nuova, quella dell’ingegnere; che, molto più importante dell’imprenditore o dell’operaio dell’industria, tiene in mano i futuri sviluppi della civiltà occidentale. Ma il tempo di quest’ultima è ormai quasi compiuto; la fine è imminente. Si tratta soltanto di vedere se l’uomo occidentale saprà assecondare il movimento della storia, creando una nuova forma di potenza – quella del signore, che non si cura dei profitti personali come fa il mercante e che, a differenza di lui, mira ad instaurare una società basata sull’armonia generale e non sul vantaggio egoistico di pochi capitalisti.

Questa posizione spiega l’atteggiamento di cauto interesse nei confronti del socialismo, inteso come principio etico più che come concreto movimento storico; e coniugato, d’altronde, con un forte elemento di tipo nazionalistico, sì da far pensare più al nazionalsocialismo che al comunismo sovietico. Ma forse, dopotutto, Spengler aveva la vista più lunga di quanto non sembrasse ai suoi detrattori e aveva intuito che, dietro le grandi differenze esteriori, nazismo e stalinismo avevano più cose in comune di quante non fossero disposti ad ammettere sia l’uno che l’altro. Per cui la sua profezia, che alla fine l’idea del denaro si sarebbe scontrata con l’idea del sangue; ossia che i valori mercantili sarebbero venuti a una resa dei conti con i valori aristocratici, conteneva elementi tutt’altro che peregrini; tanto è vero che molti intellettuali europei di destra – a cominciare da Julius Evola, traduttore dal tedesco de Il tramonto dell’Occidente nella nostra lingua – avrebbero visto nella seconda guerra mondiale, a torto o a ragione, precisamente questo tipo di scontro finale. E così la vide anche Berto Ricci, andato volontario a combattere (e a morire) in Libia contro gli Inglesi, lui sposato e padre di famiglia, nella speranza di vedere – come scrisse in una delle sue ultime lettere – il sorgere di un mondo un po’ meno ingiusto, un po’ meno ladro di quello allora esistente.

Scriveva, dunque, Oswald Spengler nelle pagine conclusive de Il tramonto dell’Occidente (titolo originale: Der Untergang des Abendlandes, traduzione italiana di Julius Evola, Longanesi &C., Milano, 1957, 1978, vol. 2, pp. 1.390-98):

…contemporaneamente al razionalismo, si giunge alla scoperta della macchina a vapore che sovverte tutto e trasforma dai fondamenti l’immagine dell’economia. Fino a allora la natura aveva avuto la parte di una coadiutrice; ora la si riduce a una schiava e il suo lavoro, quasi per scherno, lo si calcola secondo cavalli-vapore. Dalla forza muscolare del negro sfruttata nelle aziende organizzate, si passò alle riserve organiche della scorza terrestre dove l’energia vitale di millenni è immagazzinata sotto specie di carbone, e infine lo sguardo si è portato sulla natura inorganica, le cui forze idrauliche sono state già arruolate ad integrare quelle del carbone. Coi milioni e miliardi di cavalli-vapore la densità di popolazione raggiunge un livello che nessun’altra civiltà avrebbe mai ritenuto possibile. Questo aumento è conseguenza della macchina, la quale vuol essere servita e diretta, in cambio centuplicando le forze di ogni individuo. È con riferimento alla macchina che la vita umana va ora a rappresentare un valore. Il lavoro diviene la grande parola d’ordine del pensiero etico. Già nel diciottesimo secolo esso in tutte le lingue aveva perduto il suo significato negativo originario. La macchina lavora e costringe l’uomo a lavorare insieme ad essa. Tutta la civiltà è giunta ad un tale grado di attivismo, che sotto di esso la terra trema.

E ciò che si è svolto nel corso di appena un secolo è uno spettacolo di una tale potenza, che l’uomo di una futura civiltà, di una civiltà con una anima diversa e con diverse passioni, avrà il sentimento che la stessa natura ne doveva esser stata scossa nel suo equilibrio. Anche in altri tempi la politica passò sopra città e popoli e l’economia umana incise profondamente sui destini del regno animale e vegetale; ma tutto ciò sfiorò appena la vita e di nuovo sparì. Invece questa tecnica lascerà le sue tracce anche quando tutto sarà dimenticato e sepolto. Questa passione faustiana ha trasformato l’imagine della superficie terrestre.

Qui ha agito un impulso della vita a trascendere e ad innalzarsi che, intimamente affine a quello del gotico, al tempo dell’infanzia della macchina a vapore trovò espressione nel monologo del Faust di Goethe. L’anima ebbra vuol portarsi di là da spazio e tempo. Una indicibile nostalgia la attira verso lontananze sconfinate. Ci si vorrebbe staccare dalla terra, ci si vorrebbe perdere nell’infinito, si vorrebbero sciogliere i vincoli del corpo ed errare nello spazio cosmico fra le stelle. Ciò che all’inizio fu cercato dal fervido empito ascensionale di un San Bernardo, ciò che Grünewald e Rembrandt evocarono negli sfondi dei loro quadri e Beethoven negli accordi trasfigurati dei suoi ultimi quartetti, torna di nuovo nell’ebbrezza spirituale donde procede questa fitta serie di invenzioni. È così che si è formato un sistema fantastico di mezzi di comunicazione che ci fa attraversare interi continenti in pochi giorni, e ci porta con città galleggianti di là da ogni oceano, che trafora montagne e lancia convogli a velocità pazze nei labirinti delle ferrovie sotterranee; e dalla veccia macchina a vapore, da tempo esaurita nelle sue possibilità, si è passati ai motori a gas per infine staccarsi dalle vie e dalle rotaie ed elevarsi negli spazi. Così la parola parlata in un attimo può esser inviata oltre ogni mare; prorompe il piacere per records di ogni specie e per le dimensioni inaudite, ambienti giganteschi vengono costruiti per macchine titaniche, navi enormi e ponti ad incredibile gettata, costruzioni pazzesche che raggiungono le nubi, forze meravigliose incatenate in un punto in modo tale che basta la mano di un bambino per metterle in movimento, opere di cristallo e di acciaio che vibrano nel frastuono di ogni specie di meccanismi nelle quali, questo essere minuscolo, si muove come un signore assoluto sentendo finalmente sotto di sé la natura.

E queste macchine nella loro forma sono sempre più disumanizzate, sempre più ascetiche, mistiche, esoteriche. Esse avvolgono la terra con una rete infinita di forze sottili, di correnti e di tensioni. Il loro coro si fa sempre più spirituale, sempre più chiuso. Queste ruote, questi cilindri, queste leve non parlano più. Ciò che in esse è più importante si ritira all’interno. La macchina è stata sentita come qualcosa di diabolico, e non a torto. Agli occhi del credente essa rappresenta la detronizzazione di Dio. Essa pone la causalità sacra nelle mani dell’uomo e questi la mette silenziosamente, irresistibilmente in moto con una specie di preveggente onnisapienza.

Mai come oggi un microcosmo si è sentito superiore al macrocosmo. Oggi vediamo piccoli esseri viventi che con la loro forza spirituale hanno ridotto il non vivente a dipendere da loro. Nulla sembra eguagliare un simile trionfo che è riuscito ad un’unica civiltà e forse solo per la durata di qualche secolo.

Ma proprio per tal via l’uomo faustiano è divenuto schiavo della sua creazione. Nelle sue mosse così come nelle sue abitudini di vita egli sarà spinto dalla macchina in una direzione sulla quale non vi sarà più né sosta, né possibilità di tornare indietro. Il contadino, l’artigiano, perfino il commerciante appaiono d’un tratto insignificanti di fronte a tre figure cui lo sviluppo della macchina ha dato forma: l’imprenditore, l’ingegnere e l’operaio industriale. In questa civiltà, e in nessun’altra al di fuori di essa, da un piccolo ramo dell’artigianato, cioè dall’economia dei manufatti, si è sviluppato il possente albero che oscura ogni altra professione: il mondo economico dell’industria meccanica. E questo mondo costringe sia l’imprenditore che l’operaio industriale ad obbedirgli. Entrambi sono gli schiavi, non i signori della macchina che ora comincia a manifestare il suo occulto potere demonico. Ma se le attuali teorie socialistiche hanno solo voluto vedere il rendimento dell’operaio non avanzando che per il lavoro di questi le loro rivendicazioni, un tale lavoro è tuttavia reso possibile esclusivamente dall’attività decisiva e sovrana dell’imprenditore. Il famoso detto del braccio possente che fa arrestare tutte le ruote è un errore. Per fermarle, non c’è bisogno di essere operai. Ma per tenerle in moto, non basta essere operai. È l’organizzazione, è il dirigente che costituisce il centro di tutto questo regno artificiale e complesso della macchina. Il pensiero, non il braccio, tiene insieme un tale regno. Ma proprio per questo, per mantenere in piedi siffatto edificio perennemente pericolante, una figura è ancor più importante della stessa energia di nature dominatrici in veste di imprenditori che fa scaturire da suolo intere città e che sa trasformare l’immagine del paesaggio – una figura, che nelle lotte politiche si è soliti dimenticare: l’ingegnere, sapiente sacerdote della macchina. Non sol il livello ma la stessa esistenza dell’industria dipendono dall’esistenza di centinaia di migliaia di menti qualificate e ben addestrate che dominano e fanno progredire incessantemente la tecnica.

L’ingegnere è propriamente il silenzioso dominatore e il destino dell’industria meccanica. Il suo pensiero è come possibilità quel che la macchina è come realtà. Si è temuto, materialisticamente, l’esaurirsi dei giacimenti di carbone. Ma finché esisteranno degli scopritori di sentieri di un rango superiore pericoli di tal genere saranno inesistenti. Solo quando questo esercito di inventori, il cui lavoro intellettuale forma una interna unità con quello della macchina, non avrà più una posterità, l’industria, malgrado la presenza di imprenditori e di operai si spegnerà. Anche se la salute dell’anima dei migliori delle future generazioni venisse considerata più importante di tutta la potenza della terra e se per influenza di quella mistica e di quella metafisica che oggi stano soppiantando il razionalismo il sentimento del satanismo della macchina guadagnasse terreno in una élite spirituale sollecita di quella salute – sarebbe l’equivalente del passaggio da Ruggero Bacone a Bernardo di Chiaravalle – anche in questo caso nulla arresterà la conclusione di questo grande dramma dello spirito nel quale le forze materiali hanno solo una parte secondaria.

L’industria occidentale ha sostato le vie già seguite dal commercio delle altre civiltà. Le correnti della vita economica si portano verso le sedi del «re carbone» e le aree ricche di materie prime; la natura viene saccheggiata, tutta la terra viene offerta in olocausto al pensiero faustiano sotto specie di energia. La terra che lavora è l’essenza della visione faustiana; nel contemplarla, muore il Faust della seconda parte. Del poema, nella quale il lavoro dell’imprenditore ha avuto la sua suprema trasfigurazione. È la suprema antitesi all’esistenza statica e sazia del periodo imperiale antico. L’ingegnere è il tipo più lontano dal pensiero giuridico romano ed egli otterrà che la sua economia abbia un proprio diritto: un diritto nel quale le forze e le opere prenderanno il posto delle persone e delle cose.

Ma non è meno titanico l’assalto sferrato dal danaro contro questa potenza spirituale. Anche l’industria è legata alla terra – come l’elemento contadino. Essa ha le sue sedi, i suoi impianti, le sue sorgenti di energia vincolate al suolo. Solo l’alta finanza è completamente libera, completamente inafferrabile. A partire dal 1789 le banche e quindi le Borse si sono sviluppate come una potenza autonoma grazie al bisogno di credito determinato dall’enorme incremento dell’industria e, come il danaro in tutte le civilizzazioni, questa potenza ora vuol essere l’unica potenza. L’antichissima lotta fra economia di produzione e economia di conquista prende ora le proporzioni di una lotta gigantesca e silenziosa di spiriti svolgentesi sul suolo delle città cosmopolite.

È la lotta disperata del pensiero tecnico, il quale difende la sua libertà contro il pensiero in funzione di danaro.

La dittatura del danari si consolida e si avvicina ad un apice naturale – ciò sta accadendo oggi nella civilizzazione faustiana come già è accaduto in ogni altra civilizzazione. Ed ora interviene qualcosa che può esser compreso solo da chi ha penetrato il significato essenziale del danaro faustiano. Se il danaro faustiano fosse qualcosa di tangibile, di concreto, la sua esistenza sarebbe eterna; ma poiché esso è una forma del pensiero, esso scomparirà non appena il mondo dell’economia sarà stato pensato a fondo: scomparirà per l’esaurirsi della materia che gli fa da substrato. Quel pensiero è già penetrato nella vita della campagna mobilitando il suolo; esso ha trasformato in senso affaristico ogni specie di mestiere; oggi esso penetra vittoriosamente nell’industria per mettere le mani sullo stesso lavoro produttivo dell’imprenditore, dell’ingegnere e dell’operaio. La macchina col suo seguito umano, la macchina, questa vera sovrana del secolo, è in procinto di soggiacere ad una più forte potenza. Ma questa sarà l’ultima delle vittorie che il danaro può riportare; dopo, comincerà l’ultima lotta, la lotta con la quale la civilizzazione conseguirà la sua forma conclusiva: la lotta tra danaro e sangue.

L’avvento del cesarismo spezzerà la dittatura del danaro e della sua arma politica, la democrazia. Dopo un lungo trionfo dell’economia cosmopolita e dei suoi interessi sulla forza politica creatrice, l’aspetto politico della vita dimostrerà di essere, malgrado tutto, il più forte. La spada trionferà sul danaro, la volontà da signore piegherà di nuovo la volontà da predatore. Se designiamo come capitalismo le potenze del danaro e se per socialismo s’intende invece la volontà di dar vita a un forte ordinamento politico-economico di là da ogni interesse di classe, ad un sistema compenetrato da una preoccupazione aristocratica e da un sentimento di dovere che mantengano il tutto in una salda forma in vista della lotta decisiva della storia – allora lo scontro tra capitalismo e socialismo potrà significare anche quello fra danaro e diritto. Le potenze private dell’economia vogliono avere mani libere perla conquista delle grandi fortune. Non intendono che nessuna legge sbarri loro la via. Vogliono leggi che vadano nel loro interesse e per questo si servono dello strumento che esse stesse si sono create, della democrazia e dei partiti pagati. Per far fronte ad un tale assalto il diritto ha bisogno di una tradizione aristocratica, dell’ambizione di forti schiatte capaci di trovare la loro soddisfazione non nell’accumulazione delle ricchezze bensì nei compiti propri ad un’autentica razza di capi di là da ogni vantaggio procurato dal danaro. Una potenza può esser rovesciata solo da un’altra potenza, non da un principio; ma al di fuori della potenza del danaro non ve ne è un’altra, oltre a quella ora detta. Il danaro potrà essere spodestato e dominato soltanto dal sangue. La vita è la prima e l’ultima delle correnti cosmiche in forma microcosmica. Essa costituisce la realtà per eccellenza nel mondo considerato come storia. Di fronte all’irresistibile ritmo agente nella successione delle generazioni alla fine scompare tutto ciò che l’essere desto ha costruito nei suoi mondi dello spirito. Nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza. Così lo spettacolo offerto da una civiltà superiore, da questo meraviglioso mondo di divinità, di arti, di idee, di battaglie, di città, si chiude di nuovo con i fatti elementari del sangue eterno, che fa tutt’uno con l’onda cosmica in perenne circolazione. Come già il periodo imperiale cinese e quello romano ce l insegnano, l’essere desto con tutta la sua ricchezza delle sue forme è destinato a tornare silenziosamente al servizio dell’essere, della vita; il tempo trionferà dello spazio ed è esso che col suo corso inesorabile incanalerà col suo corso fuggevole, che sul nostro pianeta rappresenta la civiltà, in quell’altro accidente, che è l’uomo: forma nella quale l’accidente «vita» scorre per un certo periodo, mentre nel mondo illuminato che si apre al nostro sguardo appaiono, dietro a tutto ciò, gli orizzonti in moto della storia della terra e di quella degli astri.

Ma per noi, posti da un destino in questa civiltà e in questo punto del suo divenire in cui il danaro celebra i suoi ultimi trionfi e in cui il suo erede, il cesarismo, ormai avanza silenziosamente e irresistibilmente, è strettamente definita la direzione di quel che possiamo volere e che dobbiamo volere, a che valga la pena di vivere. A noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario o di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storia sarà in ogni caso realizzato: o col concorso dei singoli o ad onta di essi.

Ducunt fata volentem, nolentem trahunt.

Come ha osservato Domenico Conte (in Introduzione a Spengler, Laterza Editori, Bari, 1997, p. 30 sgg.), sono almeno tre le prospettive dalle quali Spengler osserva il movimento della storia universale.

La prima è una dimensione “popolare”, che vede la contrapposizione pura e semplice fra mondo della natura e mondo della storia (ciò che riecheggia la distinzione diltheyana fra scienze della natura e scienze dello spirito: cfr. F. Lamendola, Essenza della filosofia e coscienza della sua storicità nel pensiero di Wilhelm Dilthey). Il mondo della natura è statico, quello della storia è dinamico; il mondo della natura è sottoposto a leggi regolari e costanti, quello della storia è unico e irripetibile.

La seconda dimensione è, propriamente, quella della filosofia della storia, basata sulla concezione organicistica delle civiltà, che egli assimila a degli organismi viventi. È questo l’aspetto più noto della sua concezione filosofica, quello che ha destato maggiori consensi ma anche le critiche più pesanti, da parte di coloro i quali hanno evidenziato l’arbitrarietà di una analogia in senso stretto fra la vita degli organismi e la «vita» delle civiltà umane.

La terza prospettiva, che potremmo definire metafisica, è quella che ruota intorno al concetto spengleriano di «anima» delle civiltà. È qui che il pensatore tedesco ha sviluppato la parte più originale delle sue riflessioni, istituendo complessi e vorticosi parallelismi fra gli elementi formali delle singole civiltà e spaziando, con tono ispirato e quasi da veggente, attraverso i campi più svariati dell’arte, della scienza e della tecnica. Ed è qui che ha dispiegato quel suo stile turgido e solenne, drammatico e affascinante, che gli ha conquistato la simpatia di tante schiere di lettori ma anche, inevitabilmente, la diffidenza o il disdegno di molti filosofi di più austera concezione, ivi compresi gli idealisti ideali e, segnatamente, Benedetto Croce.

Quanto a noi, quello che più ci colpisce nella concezione della storia di Spengler è la brutalità, per così dire, ovvero la crudezza del suo vitalismo biologico. Unendo la volontà di Schopenhauer con la selezione naturale di Darwin, l’autore de Il tramonto dell’Occidente delinea un mondo della storia dominato da inesorabili leggi biologiche, ove tutto ciò che resta della libertà umana non è altro che la libertà di “scegliere” un destino tra segnato dalle forze della storia stessa, oppure di precipitare nell’impotenza più completa.

Spengler, come si è visto, è estremamente esplicito a questo riguardo: nella storia l’essenziale è sempre e soltanto la vita, la razza, il trionfo della volontà di potenza, non il trionfo delle verità, delle invenzioni o del danaro. La storia mondiale è il tribunale del mondo ed essa ha sempre riconosciuto il diritto della vita più forte, più piena, più sicura di sé: il suo diritto all’esistenza, non curandosi se ciò venga riconosciuto giusto o ingiusto dall’essere desto. La storia ha sempre sacrificato la verità e la giustizia alla potenza, alla razza, condannando a morte gli uomini e i popoli per i quali la verità è stata più importante dell’azione e la giustizia più essenziale della potenza.

Questo è il dramma di una concezione della storia chiusa in sé stessa, opera di un essere umano gettato a caso nel mondo e destinato a sparire, come già sono scomparse tante altre forme di vita prima di lui. Solo quando si dà per scontata la assoluta insignificanza dell’uomo in quanto persona unica e irripetibile, nonché la radicale immanenza della storia, si può giungere a proclamare, senza ombra di turbamento “sentimentale”, che la verità non ha alcuna importanza e che quello che conta è solo la potenza.

Peggio ancora, Spengler afferma – senza batter ciglio – che la storia è il tribunale del mondo, il che equivale ad innalzare la realtà effettuale al di sopra di tutto e implica, come logica conseguenza, l’adorazione dell’esistente, visto come l’affermazione, attraverso la lotta, di ciò che è migliore, nel senso di più forte. Si tratta di un tribunale che non riconosce valori o principi, ma solo dati di fatto; e che si inchina solo davanti a quelle forze storiche che sanno imporre, nietzscheanamente, una vita più piena e più sicura di sé, non una vita più giusta o più buona.

Nel clima di generale disorientamento intellettuale e morale dei primi decenni del Novecento, milioni di persone hanno fatto propria una tale filosofia della forza e si sono lasciate trascinare da capi politici che l’avevano adottato come loro credo incondizionato.

Negli ultimi giorni della sua vita, quando i carri armati sovietici irrompevano già per le vie di una Berlino distrutta dai bombardamenti aerei, Hitler ebbe a riconoscere – assai a denti stretti – che i Russi, alla fine, si erano dimostrati più forti dei Tedeschi e che, quindi, meritavano di divenire i nuovi signori dell’Europa. Anche Mussolini, negli ultimi tempi della sua vita, si era più volte lamentato del fatto che gli Italiani non erano stati all’altezza del grande destino offertosi a portata delle loro possibilità e che, pertanto, avevano meritato pienamente la sconfitta.

Ma se la storia non è altro che un tribunale del mondo fondato sul diritto del più forte, bisogna sempre aspettarsi che la forza di oggi ceda, domani, davanti a una forza più grande o semplicemente più spregiudicata; il che equivale a fare della storia umana una giungla insanguinata, popolata di zanne e di artigli sempre protesi a ghermire la preda, lacerarla e massacrarla. Il tribunale assomiglia pericolosamente a un mattatoio, da cui si levano incessantemente muggiti di terrore e grida di dolore; un tribunale che sanziona il diritto della forza in luogo della forza del diritto.

Se così fosse, vorrebbe dire che nessun progresso è stato compiuto dai tempi degli eroi omerici, trascinati in una spirale infinita di violenza per acquisire la gloria, che richiede sempre nuova violenza per conservare ed accrescere la gloria stessa: e ciò in un mondo ove tutti mirano allo stesso obiettivo, e ridotto, quindi, a un eterno, sanguinoso campo di battaglia di ciascuno contro tutti. Spengler, nemico dell’idea di progresso, non aveva alcuna difficoltà ad ammetterlo; ma noi, che pure non adoriamo l’idea (illuministica) del progresso, possiamo ammettere che la civiltà cui apparteniamo non abbia saputo minimamente elaborare l’insegnamento di quelle che l’hanno preceduta, per instaurare non già un mondo concreto di giustizia e armonia, ma almeno l’idea di una superiore giustizia e di una necessaria armonia?

vendredi, 14 janvier 2011

La metafisica de "L'Operaio" di Ernst Jünger

La metafisica de "L’operaio" di Ernst Jünger

Luca CADDEO

Ex: http://www.centrostudilaruna.it/

Il progresso tecnico che ancora alla fine dell’800 sembrava condurre l’uomo ad un mondo più giusto e libero dal dolore, pareva mostrare, all’alba del secolo ventesimo, il suo terribile volto di Giano. Gli sfaceli della guerra e la povertà da essa cagionata producevano quelle ingiustizie che, nell’ottica marxista, e ben presto nazionalista e “fascista”, erano il prodromo, per certi versi contraddittorio, all’avvento della “rivoluzione”, fosse questa intesa come un ribaltamento dei rapporti di proprietà o come uno scardinamento del mondo liberale e borghese in previsione della costruzione di una comunità organica. Si iniziò a leggere la tecnica come il segno, se non la causa, della decadenza morale dell’uomo che preludeva al crepuscolo del mondo occidentale o almeno alla sua inevitabile “Krisis”. E’ assai in generale questa la cornice storica e sociale all’interno della quale l’allora celebre scrittore di guerra e giornalista politico Ernst Jünger pubblica, nel 1932, il saggio filosofico e metapolitico Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt (1).

Nelle pagine che seguono cercherò, da un lato, di evidenziare la portata propriamente metafisica del saggio esaminando la metafisica delle forme che ne costituisce l’impianto; dall’altra, avrò modo di rilevare come Ernst Jünger ne L’operaio non abbia l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario, secondo i miei studi, egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo.

1. Forma e Tipo

Sfogliando L’operaio si ha la sensazione che temi di varia natura siano talmente e finemente interconnessi che appaia assai arduo procedere ad una de-composizione funzionale alla comprensione dei presupposti. Ad una lettura più attenta si “vede” invece perfettamente ciò che, nell’intento dell’acuto “sismografo”, si cela sotto la multiforme matassa. E’ utile a questo punto procedere alla illustrazione di quelli che mi sono sembrati i fondamenti metafisici del saggio del ’32.

Secondo Jünger esisterebbe un “solco” ineffabile definito di sovente eterno e immobile, di cui ogni forma (Gestalt) sarebbe il modo temporale. La Forma è una irradiazione (Strahlung) dell’Indistinto eterno ed immoto, è il modo tramite cui l’essenza numinosa della forma si fa tempo (2); la forma è un tutto che non si riduce alla somma delle sue parti (3). Ciò fa pensare che l’essenza della Gestalt non nasca e non muoia con gli elementi che ne garantiscono l’epifania, anche se il rapporto tra la forma e il suo evento è pressoché necessario (4). L’uomo non ha la possibilità di rappresentare la forma nella sua essenza, non la può cioè porre davanti a sé come un oggetto materiale o spirituale per poi misurarla razionalmente (5). Essa, in sé, è come l’Uno di Plotino (6). Ma l’uomo può “avvicinarsi” (7) alla forma vivendola, cioè incarnandola. Vivere la forma significa dis-porsi alla sovraindividualità che è la modalità grazie a cui la forma si appresta a dominare globalmente. L’uomo travalica la propria individualità facendo spazio al dipanarsi della forma, tras-formandosi in Tipo. La Forma si manifesta infatti nel tipo. Essa è il sigillo, dice Jünger, rispetto al tipo che è l’impronta (8).

Se la forma nelle sue vestigia mortali è una declinazione dell’eternità, il tipo deve, a mio avviso, essere considerato come la guisa temporale della forma. Esso infatti, in un certo senso, attualizza il Destino della Forma. Tale Destino, come suggerito dal titolo de L’operaio, è il Dominio della Forma. Un Dominio che, lo si diceva, non è parziale, che cioè non si espande in un solo piano della realtà, ma a livello del pensare, del sentire e del volere oltre che nello spazio tramite la tecnica e la distruzione che essa comporta. Nello scritto del 1963 Typus, Name, Gestalt si legge che “Tipo” è più di “individuo” nella stessa misura in cui è meno di “forma” (9).

La forma è più vicina all’Indistinto; il tipo, irradiazione della Forma, valicata l’individualità, spalanca le porte all’impersonalità. Questo discorso appare fin qui assai astratto. Per comprendere come effettivamente l’uomo, facendosi Tipo, possa rispecchiare totalmente la forma, è necessario riflettere sul linguaggio della manifestazione della forma. L’uomo infatti si fa tipo (forma nel tempo) praticando, in certo qual modo essendo, il linguaggio della forma. Divenendo tipo, e cioè qualcosa che supera gli esclusivi interessi della propria isolata individualità, si pro-pone al servizio dell’espansione totale della forma. Ora, a parere di Jünger, il linguaggio che la forma, tramite l’uomo, parla nell’epoca della “riproducibilità tecnica” (10) è naturalmente proprio quello della tecnica. Nel periodo de L’operaio la tecnica è un ingranaggio di questo sistema metafisico. Solamente tramite la tecnica infatti la forma può dominare in tutto il mondo. La tecnica è, in altri termini, il modo più efficace tramite cui la Forma può dominare totalmente.

2. L’elementare

Prima di procedere all’analisi del nesso che fonde inestricabilmente, nel pensiero di Jünger, la tecnica alla forma, è bene riflettere su un altro tema che è parimenti inserito nell’impianto metafisico di cui si discute. Mi riferisco alla nozione di “elementare” che, almeno in parte, costituisce uno degli argomenti più “attuali” del pensiero di Jünger (11). Ne L’operaio l’elementare è, da un certo punto di vista, una forza imperitura, sempre uguale a se stessa, ma imprevedibile, poco misurabile, refrattaria al calcolo della ragione strumentale, malamente oggettivizzabile; è dunque un’energia primordiale che non si riduce né all’uomo né alle sue leggi, morali o scientifiche che siano. L’elementare agisce sia come irrefrenabile forza naturale (inumana potenza dei quattro elementi naturali), sia nell’uomo come moto profondo dell’anima impossibile da ponderare, razionalizzare, cattivizzare. Secondo Jünger l’energia del cosmo è sempre uguale a se stessa. Risulta allora perfettamente inutile, anzi assai pericoloso, relegare nell’irrazionale le energie elementari che, in un modo o nell’altro, necessariamente troveranno una valvola di sfogo. Più vengono contratte, più aumenta la loro carica esplosiva, dirompente, agli occhi dell’uomo, terribile. Il borghese porterebbe avanti proprio questo tentativo: piegherebbe l’elementare all’assurdo o, al massimo, all’eccezione che conferma la regola della razionalizzabilità del tutto. A parere del borghese tutto ciò che non può essere ricondotto alla ragione strumentale e alla morale utilitaria deve essere per forza assurdo, dunque irrazionale; l’elementare è così, nell’ottica dell’uomo moderno, destinato ad essere s-piegato, calcolato. Il motivo di questa operazione matematica (12) è per Jünger essenzialmente uno: la paura. L’uomo moderno ha infatti come fine la sicurezza che, insieme alla comodità e all’aponia, vede come il presupposto della sua felicità. L’elementare introduce l’uomo nello spazio del pericolo e dunque lo apre all’esperienza inspiegabile, ma endemica all’umano, del Dolore (13). Crea così le premesse per lo sconvolgimento dell’ordine morale e sociale mettendo a repentaglio la sicurezza che, come si è detto, sarebbe il valore più caro all’uomo borghese. La contraddizione, la sofferenza, la violenza, ma anche la temerarietà, l’entusiamo eroico, fanno parte del sottobosco a cui l’elementare, secondo Jünger, dischiude l’animo umano. Il borghese crede che grazie al progresso, anche tecnico, la società umana possa un giorno pervenire alla costruzione di un paradiso terrestre in cui l’uomo universale, dotato di diritti inalienabili, possa essere rispettato in quanto tale; un paradiso terrestre da dove possa essere bandito il pericolo, il dolore. Jünger contesta l’equazione razionalità-borghese=razionalità. Quella borghese è infatti, ai suoi occhi, una forma di razionalità che strumentalizza ogni fenomeno alla sicurezza e alla comodità dell’uomo. Una forma di ragione che, dopo averlo oggettivizzato, fa di ogni ente un mezzo per raggiungere una forma di felicità terrena che risulterebbe riduttiva, poco appropriata alla grandezza destinale che l’uomo in passato sarebbe stato in grado di incarnare. Nel sistema jüngeriano l’elementare riveste quasi la funzione che in una macchina ha il carburante. E’ infatti l’energia del sistema, è una forza tellurica e immortale che agisce in sintonia con la Forma facendola muovere nello spazio, cioè consentendole di essere nel tempo. Ritornando allo schema generale: così come il tipo permette alla forma di esistere nello spazio, l’elementare permette alla forma di muoversi in esso e dunque, in virtù del legame che tradizionalmente stringe lo spazio col tempo, di essere tempo, cioè fenomeno, evento, Destino. L’Operaio sarebbe capace di scorgere l’elementare nella sua “realtà” senza giudicarlo e “castrarlo”. Non lo relega all’assurdo, ma cerca di amplificarne le potenzialità in vista del Dominio della Forma. Il modo più appropriato che questo eone della Forma ha per liberare la potenza di cui la Forma abbisogna è la tecnica. La tecnica, come è stato accennato e come verrà ribadito, non solo è il tramite che trasforma l’uomo in tipo, ma permette all’elementare di manifestarsi in tutto il suo vigore. La tecnica è dunque rigorosamente innestata nella metafisica elaborata da Jünger, essa appare, ne L’Operaio, come un suo meccanismo imprescindibile (14).

3. La tecnica

La tecnica è “la maniera in cui la forma dell’operaio mobilita il mondo” (15). L’Operaio è così quella Forma che mobilita il mondo tramite la tecnica. Heidegger commenta che allora la tecnica coincide con la mobilitazione -totale- del mondo attuata dalla forma dell’Operaio (16). Alain de Benoist, rifacendosi al saggio del 1930 intitolato Die Totale Mobilmachung, fa presente come ”mobilitare”, nel gergo di Jünger, non significhi solo mettere in movimento, ma vorrebbe indicare anche “essere pronto, rendere pronto”, Alain De Benoist aggiunge, “alla guerra” (17). Mobilitare può significare essenzialmente rendere qualcosa disponibile per qualcos’altro: la mobilitazione del mondo appresta il mondo alla conquista totale della Forma del Lavoro. La mobiltazione va da un lato di pari passo con la distruzione e si realizza nello spazio con la tecnica bellica (18); da un altro lato, già nella sua opera di demolizione, prepara il terreno per la parusia di una nuova Figura e innesca il meccanismo necessario affinché il nuovo Dominio della Forma si realizzi. Come si diceva, il tipo umano è altro dall’individuo. Ora, l’uomo si fa tipo tramite la tecnica, la quale incide sull’essenza dell’uomo grazie alla messa in moto di radicali processi spersonalizzanti che aprono l’individuo alla uni-formità e dunque alla sovra-individualità (19).

Perché lo strumento tecnico possa essere ad-operato dall’uomo, è necessario che questi faccia propria precisamente la razionalità strumentale. Se infatti l’uomo adotta la tecnica come strumento, non ha bisogno di mettere in gioco tutte quelle qualità che lo distinguono dagli altri uomini. Secondo una tradizione di pensiero che si impone già prima di Jünger (Sorel, Spengler, Ortega, Guénon) e che, dopo L’operaio, prosegue, seppur all’interno di concezioni filosofiche assai differenti, tramite Heidegger, Adorno, Arendt e molti altri, il mezzo tecnico (e la conoscenza come dominio) richiede esclusivamente la capacità meccanica e la razionalità sufficiente a farlo funzionare. Il funzionamento dello strumento sembra il fine del processo tecnico. L’uomo stesso appare come un ingranaggio finalizzato al funzionamento del mezzo che, alla stregua di un circolo vizioso, ha come fine la mera funzionalità. Capiamo così come, all’improvviso, l’uomo col suo retaggio di esperienze personali, qualità irripetibili, particolarità, ma anche “razza” (20), differenza etnica, conti poco. E’ invece importante l’esercizio della ragione che, prendendo in prestito la terminologia di Heidegger, definiamo “rappresentativa”. Il Tipo ergendosi a fondamento, a misura del mondo, pone il mondo medesimo davanti a sé come un oggetto. Il mondo è in quanto può essere misurato, forzato al metro umano. Il mondo è, ha valore (è valore, “immagine”) in quanto è strumentale al dominio del Tipo. Conoscere significa dunque misurare, cioè matematicizzare, pre-vedere, mobilitare, indirizzare al dominio (21). Il metro di valutazione del mondo è l’oggettivazione dello stesso ai fini della sua utilizzazione e la conoscenza in quanto tale, laddove si fa tecnica, è dominio. Questo processo è talmente radicale che, a un certo momento, pare che la tecnica come strumento, da mezzo si tramuti in fine e che, dunque, il fine del mobilitare sia strumentalizzare e utilizzare il mondo in vista del dominio. Il fine del mobilitare sembra il mobilitare (22). Il mezzo dell’uomo piega a sé l’uomo.

L’uomo che inizialmente crede di perseguire tramite la tecnica (strumento da lui inteso in senso neutrale) la felicità (la tecnica si propaga facilmente e velocemente e ingenera l’illusione che tramite essa si possa superare il dolore), poi diventa parte del dispositivo che accende.

La spersonalizzazione che la tecnica introdurrebbe prelude al totale oltrepassamento del modo che sino a quel momento, secondo Jünger, si aveva di interpretare la libertà intesa come “misura il cui metro campione venga fissato dall’esistenza individuale del singolo” (23). L’uomo è parte di un processo dove perdono di importanza le qualità e la vita del singolo, dove, come si diceva, risulta fondamentale rendere il mondo funzionante per lavorarlo in vista della produzione, cioè della mobilitazione. Il lavoro, mezzo che la forma utilizza per piegare a sé il mondo, si propaga in ogni settore della vita (24). Si riduce lo spazio che divide i sessi e quello che divide il lavoro in senso proprio dall’ozio; anche lo sport diventa lavoro; ogni cosa tende ad assumere una forma tipica e incarna lo stesso severo, freddo, ascetico stile. Farsi tipo tramite la tecnica significa dunque attualizzare tutta una serie di proprietà che rendono l’uomo adeguato al dominio della forma. Il dominio della forma nel tempo attuale si appaleserebbe così tramite segni inequivocabili che sono una conseguenza diretta dell’uso della tecnica e della mentalità che tale uso esige. Si fa strada una “rigidita’ da maschera” nel volto rasato del soldato, nella sua espressione glaciale e precisa, che non tradisce una differenza psicologica né alcun umano sentimento, ma che mostra una volontà oggettiva, impersonale, automatica, meccanica. L’uniforme fa la sua comparsa in ogni ambito della vita, gli operai assomigliano così ai soldati e i soldati sono operai. La cifra acquista la sua imprescindibile importanza in ogni settore dell’organizzazione statale, si fa strada l’anonimato, la ripetizione (che sostituisce la borghese irripetibilità, eccezionalità), garantisce la sostituibilità di un operaio con un altro. La quantità prevale sulla qualità.

Fin qui pare di leggere una critica alla tecnica e alla ragione che potremmo trovare in molti altri autori in quel tempo (25). Ma Jünger sembra essere originale proprio in quanto, dopo aver individuato le trasformazioni che la tecnica produce sull’uomo, non cede alla tentazione di condannare i mutamenti epocali di cui si è detto. Che l’uomo pensi di poter restare indenne da questi processi totali è infatti, a suo avviso, un’illusione. Egli, che si voglia o no, ne è mutato profondamente. Questa tras-figurazione distrugge negativamente l’individuo borghese; l’Operaio invece, consapevole della necessità dei processi in atto, sacrifica eroicamente i propri desideri contingenti e, nel Lavoro, considerato alla stregua di una missione rivoluzionaria, perviene alla coscienza di partecipare al Destino della Forma assurgendo a vessillo, “geroglifico” del suo totale Dominio. L’essenza della tecnica dunque, come dirà Heidegger, non sarebbe nulla di tecnico ma di nichilistico (26). Essa demolisce ogni vincolo e ogni consuetudinaria misura in quanto costringe ogni ente al suo utilizzo. Le cose perderebbero così il valore armonico, tradizionale, sacrale, cultuale che avevano e diventerebbero oggetti da dominare e da utilizzare facilmente e velocemente. Il fatto che il mobilitare appaia come un mezzo finalizzato al medesimo e cieco mobilitare, è appunto una apparenza che s-vela l’alto livello a cui la tecnica approda nella sua opera di conquista totale. In verità, il mobilitare finalizzato al mobilitare è, nel pensiero che si analizza, esattamente l’”astuto” modo che la Forma attualmente adotta per raggiungere il proprio Dominio. Il protagonista del mobilitare, il suo fine, non è infatti, contrariamente alle apparenze, in ultima istanza, il mobilitare, ma la vittoria totale della nuova Forma. Per questo Jünger distingue chiaramente tra fase dinamico-esplosiva (“paesaggio da officina”) e Dominio della Forma dell’Operaio. La prima è necessaria al secondo, ma il secondo conclude, nel suo compiersi, la fase “anarchica” in cui il mobilitare si esprime in modo tanto potente da ingenerare la credenza che il suo fine sia solo e soltanto la propria cieca, distruttiva e totale manifestazione (27). In questo processo totale, antikantianamente (28), l’uomo scoprirebbe la sua dignità, o, facendo nostro un gergo appropriato allo spirito del tempo in cui Jünger scrive, il suo “onore”, proprio nel trasformarsi in mezzo della manifestazione della forma. La tecnica è così esaltata precisamente perché tras-forma l’uomo da fine isolato a mezzo organico. L’Operaio risulta, nello spirito e nel corpo, glorificato, per così dire, alchemicamente risorto nella Forma.

4. Metapolitica

Questa analisi ci permette di planare dall’orizzonte metafisico a quello metapolitico. Jünger non condivide il presupposto che starebbe alla base del modello economico proposto dalla società liberal-capitalista, secondo cui la felicità e il benessere di una nazione si ottiene tramite la soddisfazione economica degli individui (atomi) che compongono la stessa società (29).

L’idea per la quale soddisfare i propri esclusivi interessi conduca alla felicità della nazione, è fermamente rifiutata da Jünger. Egli ritiene che l’interesse privato debba essere garantito nell’alveo degli interessi sovraindividuali dell’organismo comunitario. Fondare una ideologia che a partire dalla metafisica, tramite l’interpretazione altrettanto metafisica della tecnica, attacchi nei fondamenti l’individuo e la sua idea di libertà, significa chiaramente avere come bersaglio il liberalismo che sull’individuo e sulla tutela dei suoi diritti basa la propria dottrina. I rivoluzionari conservatori si sentivano “vitalisti” proprio nel senso che aderivano nichilisticamente alle contraddizioni della realtà, specialmente laddove queste conducevano alla demolizione dell’apparato politico ed ideologico delle classi dominanti (30). Essi ambivano ad una distruzione da cui potesse originarsi un nuovo gerarchico Ordine e una nuova forma di partecipazione politica. La stessa nozione di forma come qualcosa che non si riduce alla somma delle sue parti, trova riscontro in una comunità politica che non esaurisce la sua essenza nell’addizione dei singoli che la costituiscono. La comunità organica, come la forma, è altro dalle sue parti, è “un altro che si aggiunge”, un di più a cui non si arriva tramite la mera somma di vari elementi. Così l’agire, il pensare e il sentire degli individui non sarebbero in questo contesto finalizzati al possesso della felicità personale, ma al “bene”, alla potenza della comunità che trascende la somma.

Al tempo de L’Operaio la distruzione bellica, grazie alla tecnologia, assunse un livello mai raggiunto fino a quel momento, le lotte sociali si fecero, a causa della misera condizione della classe operaia, ma anche in virtù della diffusione della ideologia marxista, dell’avanzata dei partiti socialisti e dei sindacati, proporzionali all’industrializzazione e alla mobilitazione dei materiali (umani e non) in vista del dominio delle nazioni più sviluppate. Nel dopoguerra, specialmente a causa dell’inflazione e della fortissima svalutazione della moneta, buona parte della classe media perse ogni sua sicurezza e si produssero licenziamenti a catena nelle fabbriche; vari movimenti di destra e di sinistra e altri che si collocavano esplicitamente al di là di questi due cartelli ideali, ottennero così il favore della popolazione stremata dalla crisi economica. Se a ciò si aggiunge la polemica nazionalista contro i firmatari della pesante e probabilmente iniqua pace di Versailles, si capisce come il clima politico e sociale fosse confacente all’avanzata di partiti “radicali” che vedevano nella classe liberale al potere la responsabile dello sfacelo economico e politico della Germania. In un orizzonte in cui il “nuovo nazionalismo”, a cui Jünger aderisce già a partire dalla fine della Prima guerra mondiale, otteneva sempre più consensi, la metafisica delle Forme avrebbe potuto dunque acquistare un significato morale-politico: il superamento del concetto di individuo, negli intenti di Jünger, avrebbe potuto condurre alla creazione di un “Uomo nuovo” che fosse pronto a donare la propria vita e ad immolare i propri desideri per la potenza dello stato organico, per il risanamento totale “patria umiliata”. Nel pantano ideologico della Repubblica di Weimar questa metafisica politica poteva dunque servire, agli occhi del pensatore, a costruire un’etica che ponesse l’uomo in grado di salvarsi, anche a costo di profondi sacrifici personali, dalla grave crisi in cui versava buona parte delle nazioni europee in quel tempo. Il modernismo reazionario, di cui Jünger è “l’idealtipo” (31), ha un preciso fine politico che è chiaro al pensatore tedesco ben prima della stesura de L’operaio: “Chi potrebbe contestare che la Zivilisation è più intimamente legata al progresso della Kultur, che nelle grandi città essa è in grado di parlare la sua lingua naturale e sa utilizzare mezzi e concetti nei cui confronti la Kultur è indifferente o addirittura ostile? La Kultur non si lascia sfruttare a scopi propagandistici, e un atteggiamento che cerchi di piegarla in questo senso non può che esserle estraneo (…)” (32). Jünger crede che il “cupo ardore” che spinse migliaia di giovani ad andare in guerra gridando “per la Germania” offerto ad una nazione “inesplicabile e invisibile”, per quanto fosse bastato a far “tremare i popoli fino all’ultima fibra”, non potesse essere sufficiente per sconfiggere nazioni come quella statunitense che si erano rese disponibili alla mobilitazione totale di tutte le loro energie. Da qui la domanda retorica e assai significativa: “E se soltanto (il cupo ardore di cui si è detto) avesse avuto fin dal primo momento una direzione, una coscienza, una forma?” (33). Il fine politico de L’operaio può allora essere così inteso: creare le premesse metafisiche, dunque “kulturali”, ideali affinché l’ entusiasmo eroico potesse essere veramente efficace, cioè vincente. Jünger si è reso conto non solo del potere ineguagliabile degli strumenti tecnici applicati alla guerra, ma anche della necessità di trasformare la mentalità della nazione nella direzione della mobilitazione totale. Tale mobilitazione implica la fusione della vita col lavoro. Egli cioè pensa che solo se tutto diventa lavoro, tutto viene mobilitato alla potenza e dunque alla vittoria della Germania. Perché ciò accada è necessario che ogni cosa venga piegata allo strumento tecnico. La società diventa “lavoro” se prima è diventata macchina, tecnica. La Kultur tradizionalmente intesa non basta a questo che è chiaramente inteso come uno scopo epocale. C’è bisogno di una Zivilisation che non contraddica la Kultur ma che ne garantisca la vittoria reale. L’operaio ha l’obbiettivo eminentemente politico di sintetizzare la Kultur con la Zivilisation, in qualche modo di rendere culturale e politica la civilizzazione e di civilizzare, “modernizzare” la Kultur (34). Jünger contesta in maniera netta l’individualismo negli articoli scritti tra il 1918 e il 193335e, se si nota che L’operaio è del 1932, lo scritto può essere inteso in senso meramente apolitico molto difficilmente. Gli Operai, nel libro del ’32, sono uomini d’acciaio, incarnazione di un’etica oggettiva -realista-, che ha come fine il dominio della Forma del lavoro, e dunque il lavoro totale in ogni settore della produzione e dell’esistenza. L’individuo borghese che, in questa parabola di pensiero, ha come obbiettivo la comodità e la sicurezza, non sarebbe adatto a rappresentare senza rimpianti e con assoluto rigore un’etica che preveda la rinuncia alle proprie contingenti aspirazioni, alla propria esclusiva e “materiale” felicità. D’altra parte, non sarebbe adatto ad incarnare una simile etica neppure il “proletario” che si sente umiliato e combatte per migliorare le condizioni della sua classe e per ribaltare i rapporti di proprietà. Questi infatti lotta per gli interessi di una parte della nazione e ha un fine, che, dal punto di vista jüngeriano, resta sociale ed economico. L’Operaio invece, come si diceva, non bada al miglioramento della propria condizione economica, non ambisce ad impossessarsi dei mezzi di produzione né crede agli ideali di uguaglianza nei quali, seguendo la tradizione marxiana, il proletario dovrebbe credere. L’Operaio jüngeriano è al servizio della Forma e del suo Dominio; a questo servizio sacrifica ogni sua aspirazione, personale o di classe.

Secondo Jünger, si deve lavorare in primo luogo sullo spirito umano per poter ambire almeno ad una parziale rinascita. Il superamento dell’individualità è da Jünger perseguito tramite gli effetti distruttivi della tecnica che, in altri pensatori, sia di destra che di sinistra, sono abborriti in ogni senso. Jünger, nel periodo de L’operaio, ritiene puerili e dannose le tesi di chi pensa che la tecnica sia di per sé uno strumento del Male, qualcosa rispetto a cui l’uomo si sarebbe posto come un inesperto “apprendista stregone” che non è più in grado di controllare le dinamiche innescate dai suoi esperimenti (36) e, allo stesso modo, non ritiene che l’uomo possa divenire buono, giusto e dunque felice. In ogni quadro epocale domina un tipo di Forma che impregna tutto di sé; ogni cosa in un dato ciclo ha lo stile della forma che domina. Il ciclo sorge in quel periodo definito Interregno (37). L’Interregno è nietzscheanamente quel torno temporale in cui i vecchi valori non sono ancora morti e quelli nuovi che scalpitano non hanno ancora conquistato lo spazio necessario al Dominio. Accade così che alla fine di un ciclo le vecchie forme e i valori fino a quel momento dominanti si svuotino pian piano dal loro interno. Che i valori si s-vuotino significa che perdono la loro essenza di valori; il valore è ciò intorno a cui e grazie a cui l’uomo costruisce il suo senso. Alla fine di un ciclo i valori sono ancora formalmente intatti, il loro involucro è integro, splendente; ma perdono di sostanza: non sono più in grado di orientare la vita dell’uomo, è come se il loro corpo fosse ancora monoliticamente visibile a tutti, ma stesse perdendo il proprio vigore, il proprio potere di movimentare l’uomo e con esso il mondo. E’ così che in questo vuoto assiologico ed ontologico si insinuano nuove forze che aprono lo spazio al dominio inarrestabile di nuove forme. In siffatta dinamica di s-vuotamento delle forme che coincide con un nuovo riempimento, opera la tecnica. La tecnica si insinua in ogni dove, nello spazio e nello spirito, inizialmente come uno strumento puro, assolutamente neutro, grazie a cui l’uomo può vivere più comodamente; attraverso cui ha sempre più l’illusione di esorcizzare, depotenziare il dolore e tramite cui, giorno dopo giorno, trasforma la propria vita. Più l’uomo si innamora del suo strumento, più viene risucchiato nei suoi ingranaggi oggettivizzanti di cui sopra si è detto. La tecnica secondo Ernst Jünger risulta pericolosa proprio là dove si ignora il suo potere necessariamente distruttivo. Risulta pericolosa se la si valuta superficialmente come uno strumento neutrale che l’uomo può con la sua ragione utilitaria piegare ai suoi interessi e alla sua oggettiva felicità restandone essenzialmente immune. Ma risulta pericolosa anche là dove si tenti di negarla rifugiandosi in anacronistici sentimenti romantici. In altri termini, agli occhi dello Jünger del 1932, la tecnica è positiva solo se si è consapevoli del fatidico ruolo metafisico che riveste, se si accetta di intraprendere attraverso il suo utilizzo un percorso e-sistenziale che conduca al superamento dell’io, e se, quasi come si trattasse di una catarsi ontologica, attraverso questo superamento ci si renda poveri contenitori della Forma e del suo fatale Dominio.

Note

1 Der Arbeiter, Herrschaft und Gestalt appare nell’ottobre del 1932 presso Hanseatische Verlagsanstalt (Hamburg). Nello stesso anno si hanno tre nuove edizioni del saggio. Dopo la guerra, Heidegger convince Jünger a ripubblicare il saggio che infatti compare nel sesto volume delle sue opere uscite presso Klett-Cotta a Stoccarda. L’opera è tradotta in italiano solo nel 1984 da Quirino Principe (L’operaio, trad. it., Longanesi, Milano 1984.) dopo che, agli inizi degli anni ’60, Julius Evola la fece conoscere nel riassunto analitico intitolato L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961. Delio Cantimori preferì tradurre la parola Der Arbeiter con “milite del lavoro” per sottolineare il carattere guerriero della nuova figura (Cfr., Delio Cantimori, Ernst Jünger e la mistica milizia del lavoro, in Delio Cantimori, Tre saggi su Ernst Jünger, Moller van den Brück, Schmitt, Settimo Sigillo, Roma 1985, pp. 17-43.).

2 Qualora le forme, nel loro aspetto fenomenico, non fossero soggette all’annientamento, non si potrebbe agevolmente spiegare la differenza fra un ciclo caratterizzato dal dominio di alcune forme e un altro contraddistinto da forme diverse. Ci fossero sempre le stesse forme cosa muterebbe all’alba di un nuovo ciclo? La valorizzazione di questa dottrina tradizionale giustifica insieme ad altre importanti somiglianze un parallelo fra la metafisica di Jünger e quella a cui si richiamano Evola, Guénon ed in parte Eliade. In particolare, risulta interessante un confronto fra i segni che secondo questi autori caratterizzano il Kali Yuga (L’età Oscura, l’ultima età prima della fine di questo ciclo cosmico) e i segni che, ne L’operaio e in altre opere di Jünger, contraddistinguono l’“Interregno” in cui sorge ed agisce la Forma dell’Operaio. In questo senso, è assolutamente importante anche un paragone con Spengler per il quale si rimanda a: Domenico Conte, Jünger, Spengler e la storia, in A.A. V.V., in Ernst Jünger e il pensiero del nichilismo, a cura di Luisa Bonesio, Herrenhaus, 2002, pp. 153-198; Luciano Arcella, Ernst Jünger, Oltre la storia, in Due volte la cometa, Atti del convegno Roma 28 ottobre 1995, Settimo Sigillo, Roma 1998. Antonio Gnoli e Franco Volpi, I prossimi titani, Conversazioni con Ernst Jünger, Adelphi, Milano 1997, pp. 103, 104. Si veda anche Julius Evola, Spengler e il Tramonto dell’Occidente, Fondazione Julius Evola, Roma 1981. Sulla interpretazione jüngeriana del pensiero di Spengler si legga soprattutto: Ernst Jünger, trad. it., Al muro del tempo, Adelphi, Milano 2000.

3 “Nella forma è racchiuso il tutto che comprende più che non la somma delle proprie parti”. Ernst Jünger, trad. it., L’Operaio, Dominio e Forma, Guanda, Parma 2004, p. 32. “Una parte è certamente così lontana dall’essere una forma così come una forma è lontana dall’essere una somma di parti”. Ibidem.

4 Jünger definisce la storia dell’evoluzione come “il commento dinamico” della forma. Cfr., Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 75. La forma dunque “non esclude l’evoluzione”, la “include come proiezione sul piano della realtà”. Ivi, p. 125. Ciò implica l’avversione non solo alla dottrina del progresso (“ogni progresso implica un regresso”), ma il rifiuto netto di ogni prospettiva storicistica: “La storia non produce forme, ma si modifica in virtù della forma”, ivi. p. 75. Evola commenta: “Le figure non sono storicamente condizionate; invece sono esse a condizionare la storia, la quale è la scena del loro manifestarsi, del loro succedersi, del loro incontrarsi e lottare (…). E’ l’apparire di una nuova figura a dare ad ogni civiltà la sua impronta. Le figure non divengono, non si evolvono, non sono i prodotti di processi empirici, di rapporti orizzontali di causa e di effetto”. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, cit., p. 32. Si potrebbe allora sostenere con Eliade che la “valorizzazione” dell’esistenza umana non è “quella che cercano di dare certe correnti filosofiche posthegeliane, soprattutto il marxismo, lo storicismo e l’esistenzialismo, in seguito alla scoperta dell’ “uomo storico”, dell’uomo che si fa da se stesso in seno alla storia”. Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, Archetipi e ripetizioni, Borla, Roma 1999, p. 8. Questa impostazione è molto simile a quella jüngeriana, infatti l’Operaio come Gestalt non può essere considerato un prodotto delle dinamiche storico-economiche. E’ la Forma a fare la storia, non viceversa.

5 Usando il linguaggio heideggeriano si può sostenere che la forma non può essere piegata alla scienza intesa come “ricerca”: “La scienza diviene ricerca quando si ripone l’essere dell’ente” nell’ “oggettività”. Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze 1984, p. 83. La Forma non può essere oggettivizzata, non se ne può fornire una storia dettagliata né, tantomeno, se ne può calcolare in anticipo e con esattezza il corso futuro.

6 Plotino distingue l’essere che è costituito da forme sensibili e intelligibili dall’Uno che può essere considerato amorfo: “L’Uno non è “qualcosa”, ma è anteriore a qualsiasi cosa; e nemmeno non è essere, poiché l’essere possiede (…) una forma, la forma dell’essere. Ma l’Uno è privo di forma, privo anche della forma intelligibile”. Plotino, Enneade VI, in Plotino, Enneadi, Rusconi, Milano 1992, p. 1343. L’Uno “privo di forma” non può essere conosciuto “né per mezzo della scienza né per mezzo del pensiero”. Chi estaticamente ha “visto” o meglio è “stato” (è) l’Uno “non immagina una dualità, ma già diventato altro da quello che era e ormai non più se stesso, appartiene a Lui ed è uno con Lui”. L’Uno non può essere oggettivizzato. L’oggettivazione si fonda infatti sulla distanza e sulla differenza tra il soggetto che oggettiviza e l’ente oggettivizzato. Qualora ci fosse la distanza tra chi contempla l’Uno e l’Uno, quest’ultimo non si potrebbe cogliere come tale ma come “un altro”. Contemplare l’Uno significa farsi riempire dall’Uno, essere Uno. Stabilito ciò, si capisce come l’esperienza dell’Uno non possa essere adeguatamente raccontata. Manca infatti l’oggetto da ricordare. Ne L’operaio la tecnica è il modo attraverso cui l’uomo, superando la propria differenza, si avvicina a rappresentare la Forma che lo trascende.

7 Il concetto di “Avvicinamento” che scopriamo nel saggio del 1963 Tipo Nome Forma viene ripreso nello scritto del 1970 Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza: “L’avvicinamento è tutto, e questo avvicinamento, non ha uno scopo tangibile, uno scopo cui si possa dare un nome, il senso risiede nel cammino”. Ernst Jünger, Avvicinamenti, Droghe ed ebbrezza, Guanda, Parma 2006, p. 53.

8 “(…) nel regno della forma la regola non distingue tra causa ed effetto, bensì tra sigillo ed impronta, ed è una regola di tutt’altra natura”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 31.

9 “Il predicare della natura (…) muove dall’oggetto (il giglio indicato), attraverso il tipo (il giglio nominato), alla forma e infine all’indistinto”. Le risposte divengono sempre più ampie e, nel contempo, si riducono le distinzioni. Questa riduzione è il segno dell’avvicinamento all’Indistinto”. Ernst Jünger, Tipo, Nome, Forma, trad. it., Herrenhaus, 2001, p.93.

10 La perdita dell’aura nell’epoca della riproducibilità tecnica è un elemento che Benjamin giudica, al contrario di Adorno e di Horkheimer, funzionale alla possibilità di una rivoluzione sociale. Paradossalmente Jünger, che da Benjamin è stato aspramente criticato in relazione al suo scritto Die Totale Mobilmachung, nella dura recensione Teorie del fascismo tedesco, ritiene anch’egli fatale il sacrificio dell’autenticità dell’arte a favore del suo “uso” rivoluzionario. Naturalmente le prospettive sono opposte in quanto, alla stregua di Lukács (cfr. György Lukács, La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959, p. 538.), gli “incatesimi runici” di Jünger sarebbero, secondo Benjamin, tesi al rafforzamento di una “classe di dominatori” che “non deve rendere conto a nessuno e meno che mai a se stessa, che, issata su un altissimo trono, ha i tratti sfingei del produttore, che promette di diventare prestissimo l’unico consumatore delle sue merci”. Walter Benjamin, Teorie del fascismo tedesco, in id., Benjamin, Critiche e recensioni, Tra avanguardie e letteratura di consumo, trad. it., Einaudi, Torino 1979, p. 159. Dunque, la rivoluzione di Jünger e dei suoi sodali nazional-rivoluzionari, sarebbe tesa “ideologicamente” a rafforzare lo status quo, cioè lo stato liberalcapitalista e i privilegi dei “padroni”. Secondo i miei studi, Ernst Jünger non critica falsamente (“ideologicamente”) la classe borghese per amplificarne paradossalmente il potere. Egli non ha il fine di favorire lo status quo. Nel corso dell’articolo avrò modo di ribadire come le posizioni di Jünger sono equidistanti sia dal materialismo collettivista sia dall’utilitarismo borghese.

11 Secondo Daniele Lazzari: “Siamo stati persuasi da quasi tre secoli di illuminismo che il pensiero moderno avrebbe piegato le forze elementari ormai scientificamente conosciute, analizzate ed “ingabbiate” dal razionalismo dell’umana specie, ma in barba a queste riflessioni, all’osservatore più attento non può sfuggire il persistere, se non l’accentuarsi, di queste forze elementari. Tra queste la Natura, mai dimentica di sé e della sua eterna potenza non perde occasione di ricordarci la sua grandezza, la sua inarrestabile forza distruttrice con le grandi alluvioni, trombe d’aria e vulcaniche eruzioni”. Daniele Lazzari, Il Signore della Tecnica, in A.A. V.V., Ernst Jünger, L’Europa, cioè il coraggio, Società Editrice Barbarossa, Milano 2003, p. 162.

12 Heidegger ricorda che “Τά μαθήματα significa per i Greci ciò che, nella considerazione dell’ente e nel commercio con le cose, l’uomo conosce in anticipo”. Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id., Sentieri interrotti, cit., p. 74. La scienza come matematica determina “in anticipo e in modo precipuo qualcosa di già conosciuto”. Ivi, p. 75. Questo processo che implica la pre-conoscenza di ciò che si conosce e dunque la pre-visione, è il modo tipico attraverso cui, anche per Jünger, l’uomo moderno conosce, calcola e domina il mondo. La verità del mondo sta nella sua esattezza, cioè nella corrispondenza rigorosa col procedimento che si adotta per conoscerlo. Questo modo di conoscere è valido massimamente per la tecnica. La forma tramite la tecnica e la scienza come matematica calcolano e dominano il mondo. Ma, nel pensiero di Jünger, la Forma in se stessa non può certo essere a sua volta misurata, pre-determinanta. La sua verità non è l’esattezza.

13 All’argomento del dolore che, come si sta ricordando, è intrinsecamente legato il tema dell’elementare, e che non è possibile affrontare in tutta la sua ampiezza in questo articolo, Jünger dedica un complesso e profondo saggio nel 1934 in cui si legge: “Là dove si fa risparmio di dolore l’equilibrio verrà ristabilito secondo leggi di un’economia rigorosa, e parafrasando una formula celebre, si potrebbe parlare di una “astuzia del dolore” volta a raggiungere in qualsiasi modo lo scopo”. Ernst Jünger, Sul Dolore, in id. Foglie e Pietre, cit., p. 149.

14 La revisione della tematica della tecnica, che comunque non mi pare possa intaccare nella sostanza i fondamenti della metafisica delle forme, è un argomento molto complesso a cui sarebbe bene dedicare un apposito studio all’interno del quale si analizzino nello specifico almeno i saggi Oltre la linea (trad. it., Adelphi, Milano 1989), Il trattato del Ribelle (trad. it., Adelphi, Milano 1995), Al muro del tempo ( trd. it., Adelphi, Milano 2000), il romanzo filosofico Eumeswil (trad. it., Guanda, Parma 2001) e La forbice (trad. it., Guanda, Parma, 1996). Ne L’operaio, che è l’oggetto di questo articolo, Jünger pensa che l’omonima Figura possa finalizzare alla Rinascita dell’uomo totale l’elementare; la tecnica è dunque vista come lo strumento necessario che l’uomo adotta per disporsi alla Trascendenza della Forma. Successivamente questo strumento, a cui già nel ’32 era stata associata una trasformazione della libertà, non è più adatto a garantire la comunicazione tra la Forma e l’uomo. Da qui l’esigenza di elaborare nuove figure come appunto quella del Ribelle (in Il trattato del Ribelle) o dell’Anarca (in Eumeswil) che arrivano alla propria libertà sovratemporale tramite percorsi individuali.

15 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

16 Cfr. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, trad. it., in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, trad. it., Adelphi, Milano 1989, pp. 130, 131.

17 Cfr., Alain de Benoist, L’operaio fra gli dei e i titani, cit., p. 40.

18 Benjamin identifica con precisione il nesso tra la guerra e la tecnica specialmente riferendosi all’estetizzazione della politica che perseguirebbe il fascismo. La guerra imperialistica sarebbe lo sbocco naturale della società capitalista a causa “della discrepanza di poderosi mezzi di produzione e la insufficienza della loro utilizzazione nel processo di produzione (in altre parole, dalla disoccupazione e dalla mancanza di mercati di sbocco)”. Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, pp. 46, 47. E’ probabile (anche se non necessario) che la Mobilitazione Totale così come è stata elaborata da Jünger possa sfociare nella guerra. E’ anche vero che i Rivoluzionari-conservatori non contestano la società a partire da idee economiche e che i rapporti di proprietà non costiuiscono il fulcro principale della loro riflessione. E’ infatti lo stesso Operaio “a rifiutare ogni interpretazione che tenti” di spiegarlo “come una manifestazione economica, o addirittura come il prodotto di processi economici, il che significa in fondo, una sorta di prodotto industriale”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 29. L’Operaio pronuncia una “dichiarazioone d’indipendenza dal mondo dell’economia”, anche se “ciò non significa affatto una rinuncia a quel mondo, bensì la volontà di subordinarlo ad una rivendicazione di potere più vasta e di più ampio respiro. Ciò significa che non la libertà economica né la potenza economica è il perno della rivolta, ma la forza pura e semplice, in assoluto”. Ibidem.

19 Secondo Evola il “mondo senz’anima delle macchine, della tecnica e delle metropoli moderne”, “pura realtà e oggettività”, “freddo, inumano, distaccato, minaccioso, privo di intimità, spersonalizzante, “barbarico””, non è rifiutato dall’Uomo differenziato. Infatti, “proprio accettando in pieno questa realtà (…) l’uomo differenziato può essenzializzarsi e formarsi (…) attivando la dimensione della trascendenza in sé, bruciando le scorie dell’individualità, egli può enucleare la persona assoluta”. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, Edizioni Mediterranee, Roma 1995, pp. 103, 104. Rispetto al complesso rapporto fra Jünger ed Evola, oltre agli scritti evoliani L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger ( Armando, Roma 1961), Il cammino del Cinabro (Vanni Scheiwller, Milano 1963) e Cavalcare la Tigre, si legga Francesco Cassata, A destra del fascismo, profilo politico di Julius Evola, Bollati Boringhieri, Torino 2003.

20 Ne L’operaio la caratteristica peculiare della tecnica consiste proprio nella sua capacità di modificare l’essenza dell’uomo verso l’uniformità. La tecnica, che è il più appropriato strumento di dominio dell’Operaio, frantuma ogni tradizione e ogni valore e dunque anche ogni differenza di carattere schiettamente biologico. Allo stesso modo, è vero che chi non avesse la capacità di sfruttare positivamente la distruzione tecnica, sarebbe, nell’ottica di Jünger, destinato alla massificazione amorfa, in altri termini ad una modalità di vita probabilmente inferiore rispetto a quella incarnata dall’Operaio. Solo quest’ultimo, esperita la distruzione di tutti i valori e consapevole della potenza inumana della tecnica, rinasce come eroe della Forma e come protagonista del suo destino di dominio.

21 Cfr., Martin Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo, in id. Sentieri interrotti, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 87. Secondo Heidegger, dopo che l’uomo è divenuto sub-jectum issandosi a fondamento dell’essere e dunque a metro della verità, sapere significa dominare. Heidegger confessa che il suo scritto del 1953 La questione della tecnica “deve alle descrizioni contenute nel Lavoratore un impulso durevole”. Martin Heidegger, La questione dell’Essere, in Ernst Jünger-Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 118. In effetti, sia la strumentalizzazione del mondo attuata dalla ragione tecnica che il nesso profondo che fonde il darsi della verità col suo nichilistico ritrarsi sono, almeno in parte, tematiche già presenti ne L’operaio. (Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it., Mursia, Milano, 1976.). Adorno e Horkheimer, in La dialettica dell’illuminismo, scrivono che “l’illuminismo nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso”- cioè non solo come illuminismo del secolo XVIII- “ha perseguito da sempre l’obbiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni”. Max Horkheimer, Theodor Adorno, trad. it., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1966, p. 11. La tecnica è “l’essenza” del sapere come potere”. Ivi, p. 12. Jünger anticipa questa analisi sul sapere moderno che ha la tecnica e la razionalità strumentale come essenza. I pensatori della Scuola di Francoforte però tendono a non considerare in senso positivo il potere catartico della strumentalizzazione della ragione e del sapere come dominio. Secondo Jünger invece, una volta constatata l’irreversibilità delle dinamiche descritte, non resta che viverle. Né per Heidegger né per Jünger si può prescindere dall’essenza nichilistica della tecnica: è proprio esperendo il nichilismo che ci si incammina verso un suo eventuale superamento. Entrambi non condannano la tecnica in quanto ne giudicano necessario l’avvento. Sull’argomento cfr., Michela Nacci, Pensare la tecnica, un secolo di incomprensioni, Laterza, Bari 2000, p. 44.

22 Questo aspetto è stato acutamente evidenziato dal nazionalbolscevico Ernst Niekisch: “(…) La mobilitazione totale, di cui Jünger si fa banditore, è l’azione la quale raggiunge i propri estremi limiti, le punte più alte cui si possa attingere; essa pretende di porre tutto in marcia, non tollera più nulla in stato di riposo, donna, bambino, vegliardo che sia. Incita i lattanti ad arruolarsi, chiama le ragazze sotto le armi, dà fondo alle più segrete riserve; niente ne resta escluso, ogni angolo è frugato, l’ometto più mingherlino viene trascinato al fronte. E’ il bagordo più sfrenato in cui si butta il nichilismo, quando gli è diventato quasi inevitabile dover finalmente fissare il proprio volto”. Ernst Niekisch, Il regno dei demoni, Feltrinelli, Milano 1959, pp. 117, 118. Niekisch descrive perfettamente la mobilitazione totale, ma tace sul fatto che, come più volte Jünger ripete, dietro al movimento si cela immobile la Forma.

23 Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 115.

24 Il lavoro non è interpretato come un fenomeno meramente sociale ed economico, né si ha la minima intenzione di porsi dalla parte degli operai sfruttati, che lavorano troppo. Viceversa, si tenta di introdurre il lavoro come un ideale, si tratta del lavoro come forma dell’uomo e, in un certo qual modo, come forma del mondo. Il mondo e l’uomo mutano la loro forma grazie al lavoro inteso come la missione propria dell’epoca moderna.

25 Si sente l’influenza di Weber laddove si parla della ragione strumentale che finalizza ogni ente all’utile umano, al profitto e che favorisce il superamento disincantato di quella ascesi intramondana che era all’origine del capitalismo medesimo ( cfr., Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, trad. it., Rizzoli, Milano 1991, pp. 239, 240.) Ma, fa notare molto precisamente Herf, se “la critica della tecnica era moneta corrente nella cultura di Weimar”, “Ernst Jünger si distingueva, poiché sembrava accogliere positivamente il processo di strumentalizzazione degli esseri umani. Era come se Weber avesse accolto con gioia la prospettiva della gabbia di ferro”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, Il Mulino, Bologna 1988, p. 150. Per Jünger invero il fatto che la razionalità finalizzata al profitto si espanda in ogni settore della vita e che il lavoro si propaghi in ogni ambiente, non impedisce che l’Operaio possa, in un certo senso, tornare ad incarnare un’etica ascetica in cui non sia tanto importante il godimento di ciò che viene prodotto, quanto la dedizione totale al lavoro, dunque anche alla produzione. Egli cerca di dividere la missione del lavoro, funzionale al dominio della forma e alla nascita dell’Operaio (che non è un mero consumatore delle merci che produce), dall’etica utilitarista, propria del borghese che produce per raggiungere il suo isolato utile e piacere.

26 “Essere e niente non si danno uno accanto all’altro, ma l’uno si adopera per l’altro, in una sorta di parentela di cui non abbiamo ancora pensato la pienezza essenziale”. Martin Heidegger, La questione dell’essere, in Ernst Jünger, Martin Heidegger, Oltre la linea, cit., p. 157.

27 Ne L’Operaio, e in vari articoli che lo precedono (cfr., ad esempio, Ernst Jünger, “Nazionalismo” e nazionalismo, Das Tagebuch, 21 settembre 1929, in Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005, p. 89.), Jünger loda alla stregua dei futuristi la velocità, la macchina, l’acciao, la violenza che genera distruzione, i paesaggi lunari e freddi tipici del mondo-officina, la guerra come fattore elementare attraverso cui poter esperire una nuova forma di esistenza rinvigorita dal pericolo e dalla morte. Il costante riferimento all’Ordine (all’Essere, all’Immobile) è stato invece interpretato come la differenza più profonda fra Jünger e i futuristi italiani. Secondo Fabio Vander ad esempio poiché “non può esservi calma dopo la tempesta della Krisis, se non come essere della tempesta ovvero essere del divenire, dialettica della differenza”, Jünger “deve rassegnarsi al “semplice dinamismo, attivismo”, deve considerarlo intranscendibile se rifiuta, come rifiuta, la prospettiva dialettica. Allora di fronte alla tragicità di Jünger, meglio il divertissement di Marinetti, che appunto della differenza assoluta non cercava trascendimento, salvezza”. Fabio Vander, L’estetizzazione della politica, Il fascismo come anti-Italia, Dedalo, Bari 2001, p. 55. Secondo Vander, Jünger, ma anche Heidegger, poiché restii ad accettare la dialettica della differenza, non sarebbero stati in grado di sintetizzare l’Essere col Divenire, mentre Marinetti, non avendoci neppure provato, sarebbe stato più coerente. Constatata nel pensiero di Jünger la presenza della nozione “forte” di Forma, ma considerata pure la complicata correlazione che fonde il sensibile al sovrasensibile, non mi sento di ridurre la metafisica delle forme a un fallito tentativo di coniugare l’Essere col Divenire.

28 “Agisci sempre in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella persona di ogni altro, sempre come un fine e mai soltanto come un mezzo”. Immanuel Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. it., Laterza, Bari 1992, p. 111. Cesare Cases scrive che “l’etica di Jünger si direbbe l’opposto dell’etica kantiana: l’uomo non vi è concepito come valore in sé, ma come “simbolo”, come mezzo per raggiungere un determinato scopo, in cui si invera e che è in funzione di un’entità metafisica che si chiama volta per volta “idea”, “Forma”, “destino””. Casare Cases, La fredda impronta della Forma, Arte, fisica e metafisica nell’opera di Ernst Jünger, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 39.

29 “E’ l’immensa moltiplicazione delle produzioni di tutte le differenti attività, conseguente alla divisione del lavoro, che, nonostante la grande ineguaglianza nella proprietà, dà origine, in tutte le società evolute, a quell’universale benessere che si estende a raggiungere i ceti più bassi della popolazione. Si produce così una grande quantità di ogni bene, che ve n’è abbastanza da soddisfare l’infingardo e oppressivo sperpero del grande, al tempo stesso, da sopperire largamente ai bisogni dell’artigianto e del contadino. Ciascun uomo effettua una così grande quantità di quel lavoro che gli compete, che può anche produrre qualcosa per quelli che non lavorano affatto e, al tempo stesso, averne in tale quantità che gli è possibile, attraverso lo scambio di quanto gli rimane con i prodotti delle altre attività, di provvedersi di tutte le cose necessarie e utili di cui ha bisogno”. Adam Smith, La ricchezza delle nazioni, trad. it., Editori Riuniti, Roma 1969, p. 14. Anche Jünger crede nella necessità della divisione del lavoro, dunque nella specializzazione e nel nesso che lega questi processi alla complessiva crescita economica della nazione. Non crede invece che il solo mercato, come fosse una “mano invisibile”, possa essere in grado di determinare la ricchezza della nazione e, in definitiva, il benessere complessivo del popolo.

30 L’avvicinamento della metafisica delle Forme alla metafisica della vita può essere pensato con cognizione di causa solo se accanto alle somiglianze si mettono in evidenza le profonde differenze. Fare alla stregua di Lukács della metafisica delle Forme un’enclave della filosofia della vita (cfr. György Lukács, trad. it., La distruzione della ragione, cit., p. 538.), può condurre a incasellare la prima nell’alveo dell’irrazionalismo e dunque può servire a ridurrre la complessa filosofia di Jünger a un sistema teso a criticare la ragione in quanto tale. Se Jünger concorda con filosofi come Simmel sull’importanza della vita intesa come un fiume da cui l’uomo trae i valori e in cui i valori fatalmente nel tempo sono riassorbiti, conferisce anche notevole importanza alla dimensione propriamente metafisica o meglio esattamente Trascendente. La Forma non è qualcosa che fuoriesce per caso dal divenire magmatico. Essa è eterna, immobile. Se non può essere paragonata all’idea platonica è solo perché, benché sia trascendente, la dinamica della sua e-sistenza si estrinseca come evento, ma l’essenza è e rimane atemporale. Questa atemporalità conferisce solidità all’impianto etico de L’Operaio. In questo senso, la riflessione di Jünger può essere avvicinata a quella dei pensatori della Tradizione, ad esempio ad Evola e a Guénon. Infatti questi studiosi, riproponendo la metafisica della “Tradizione”, sostengono che l’uomo, per agire in conformità al proprio destino, debba incarnare principi assoluti e trascendenti, impersonali. L’uomo della Tradizione abbandona i propri desideri, il proprio utile e persegue un’ attività sovraindividuale. La sua è un’ “azione senza desiderio”, un “agire senza agire”. (Cfr. Julius Evola, Cavalcare la Tigre, cit., p. 68.). Anche l’Operaio agisce senza agire, nel senso che è Forma: non è lui ad agire, ma la Forma di cui è impronta. Da qui la preminenza in questo pensiero di concetti “forti” come quello di disciplina, di sacrificio, di eroismo. Il vitalismo mutuato da Nietzsche è dunque inquadrato in un sistema metafisico in cui valori tipicamente guerrieri, aristocratici, tradizionali trovano forza e, nell’intento di Jünger, imperitura conferma.

31 Michela Nacci, Pensare la tecnica, Un secolo di incomprensioni, cit., p. 61.

32 Ernst Jünger, La mobilitazione Totale, in id., Foglie e Pietre, Adelphi, Milano 1997, p. 127.

33 Ibidem.

34 Herf fa presente che la prima guerra mondiale era stata per i rivoluzionari conservatori “il palcoscenico su cui si riconciliavano le dicotomie centrali della modernità tedesca: Kultur e Zivilisation, Gemeinschaft e Gesellschaft”. Jeffrey Herf, Il modernismo reazionario, cit., p. 130. Diversamente da Spengler e da altri “intellettuali di destra” vicini all’“antimodernismo völkisch, Jünger proponeva di assorbire la macchina e la stessa metropoli nella Kultur tedesca, anziché respingere entrambi come prodotti di forze estranee”. Ivi, p. 133.

35 Cfr., Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2005.

36 “Si vorrebbe riconoscere all’uomo, a piacere, la qualità di creatore o di vittima di questa stessa tecnica. L’uomo appare qui o un apprendista stregone, il quale evoca forze i cui effetti egli non sa dominare, o il creatore di un progresso ininterrotto che corre incontro a paradisi artificiali”. Ernst Jünger, L’operaio, cit., p. 140.

37 Armin Mohler fornisce una chiara spiegazione del contesto in cui sorge il concetto di “interregno”: “Attraverso la nuova esplosione di movimenti che si determina nel secolo XIX il Cristianesimo (…) si disgrega. Nella realtà politica, conformemente al principio di inerzia, continua ad esistere; tuttavia là dove si prendono le decisioni esso ha perso la sua posizione dominante e rimane, anche nelle sue tradizioni consolidate (Neotomismo e Teologia dialettica), solamente una forza tra le altre. Questo processo è accelerato ulteriormente dalla decomposizione dell’eredità del mondo antico, che aveva aiutato nel corso dei secoli il cristianesimo a raggiungere una forma propria. Gli elementi della realtà precedente sussistono ancora, ma, isolati e senza punti di riferimento, si muovono disordinatamente nello spazio. L’antica struttura dell’Occidente quale unità di mondo classico, cristianesimo e forze di nuovi popoli penetrati nella storia con le invasioni barbariche, è frantumata. Ci troviamo così in questo stato intermedio, in un “Interregnum”, da cui ogni espressione culturale è influenzata”. Armin Mohler, La Rivoluzione Conservatrice in Germania 1919-1932, Una guida, cit., pp. 22, 23.

dimanche, 02 janvier 2011

Archives sur Weimar - Le national-bolchevisme allemand (1918-1932)

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Archives sur Weimar

Présentation: Nous donnons ici un des rares articles de Karl Otto Paetel publié en français (on connait notamment de lui l’article « Typologie de l’Ordre Noir» paru dans la revue Diogène, n°3, en 1953).

Ex: http://etpuisapres.hautetfort.com/

Pourquoi reproduire cet article sur un site consacré à Hans Fallada ? Parce qu’il traite d’un aspect peu connu du foisonnement politique de l’Allemagne de Weimar et que ce contexte politique a servi de toile de fond aux romans de Hans Fallada. L’article de K.O. Paetel évoque notamment le mouvement paysan du Schleswig-Holstein, auquel Hans Fallada fut mêlé de près en suivant le procès de Neumünster pour le compte d’un journal local le General-Anzeiger (en automne 1929) puis en en tirant deux romans. L’un directement inspiré de la « révolte » (Levée de Fourches) et un autre inspiré également de ses expériences de régisseur (Loup parmi les loups I ; Loup parmi les loups II – La campagne en feu).

Quant à l’article de K.O. Paetel, il est très certainement incomplet comme il le signale lui-même, mais a le mérite de présenter les grandes lignes de ce courant politique. Le seul léger reproche que l’on pourrait faire c’est d’élargir le mouvement national-bolcheviste stricto sensu (Fritz Wolffheim, Heinrich Laufenberg, Ernst Niekisch) aux nationaux-révolutionnaires. Tous les nationaux-révolutionnaires ne furent pas nécessairement des « nationaux-bolcheviques » loin s’en faut, même si nombre d’entre eux flirtèrent avec les idées de « gauche », de « socialisme », de « communisme » voire de « bolchevisme ».

Mais tout ceci appartient à l’histoire désormais et cet article est comme un trait de lumière nouveau apporté sur une époque hautement complexe.

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nb : toutes les notes (1 à 7) sont de la rédaction du weblog "Et puis après ?"

 

LE NATIONAL-BOLCHEVISME ALLEMAND DE 1918 A 1932

 

par Karl O. PAETEL [i]

 

A l’heure actuelle, lorsqu’en Allemagne occidentale on qualifie de « nationales-bolchevistes » des tendances politiques, des groupes ou des particuliers (avec l’intention de faire de la polémique et une nuance péjorative, comme pour « trotzkyste » ou « titiste »), on entend par là que ces tendances, ces groupes ou ces personnes sont orientés vers l’Est et pro-russes, ou du moins sympathisants. Mais cette définition ne suffit pas à caractériser le mouvement qui, entre la fin de la première guerre mondiale et la prise du pouvoir par Hitler, attira l’attention des sphères théorético-politiques, à l’« extrême-droite » comme à l’« extrême-gauche », de bien des façons et sous le même nom.

niekisch.jpgDe deux côtés, le mouvement était, au fond, basé sur des motifs de politique intérieure : les socialistes révolutionnaires se ralliaient à l’idée de nation, parce qu’ils y voyaient le seul moyen de mettre le socialisme en pratique. Les nationalistes convaincus tendaient vers la « gauche », parce qu’à leur avis, les destinées de la nation ne pouvaient être remises en toute confiance qu’à une classe dirigeante nouvelle. Gauche et droite se rapprochaient dans la haine commune de tout ce qu’elles appelaient l’impérialisme occidental, dont le principal symbole était le traité de Versailles et le garant, le « système de Weimar ». Aussi était-il presque inévitable qu’on se tournât, en politique extérieure, vers la Russie, qui n’avait pas pris part au traité de Versailles. Les milieux « nationaux » le firent avec l’intention de poursuivre la politique du baron von Stein, de la convention de Tauroggen, et enfin celle « réassurance » de Bismarck ; la gauche dissidente, elle, en dépit des critiques souvent violentes qu’elle formulait contre la politique communiste internationale de l’Union Soviétique, restait convaincue du caractère socialiste, donc apparenté à elle, de l’URSS, et en attendait la formation d’un front commun contre l’Ouest bourgeois et capitaliste.

Le national-bolchevisme comptait donc dans ses rangs des nationalistes et des socialistes allemands qui, introduisant dans la politique allemande une intransigeance sociale-révolutionnaire croissante, tablaient sur l’aide de la Russie pour parvenir à leurs fins.

 

Le « national-communisme » de Hambourg

Le national-bolchevisme allemand apparaît pour la première fois dans une discussion entre certaines fractions du mouvement ouvrier révolutionnaire. La chance lui a souri pour la première fois le 6 novembre 1918 et le 28 juin 1919. C’est le 6 novembre 1918 que, dans le « Champ du Saint-Esprit » près de Hambourg, Fritz Wolffheim appela le peuple à la « révolution allemande » qui, sous l’égide du drapeau rouge, continuerait la lutte contre l’« impérialisme occidental ». Le 28 juin 1919 fut signé le traité de Versailles que Scheidemann et Brockdorff-Rantzau avaient refusé de parapher.

Fritz Wolffheim et Heinrich Laufenberg, président du Conseil d’ouvriers et de soldats de Hambourg, menaient la lutte contre les mots d’ordre défaitistes du Groupe Spartacus et prêchaient la guerre « jacobine » de l’Allemagne socialiste contre le Diktat de paix. En sa qualité de chef de la délégation de paix, le ministre allemand des Affaires étrangères, le comte Brockdorff-Rantzau, avait eu l’intention de prononcer devant l’Assemblée Nationale allemande un discours d’avertissement, soulignant qu’une « paix injuste » renforcerait l’opposition révolutionnaire au capitalisme et à l’impérialisme, et préparerait ainsi une explosion sociale-révolutionnaire. Le discours ne fut pas prononcé, et sa teneur ne fut publiée que plus tard.

Lorsque le corps-franc du général von Lettow-Vorbeck fit son entrée à Hambourg, on adressa au chef du corps-franc un appel lui demandant de se joindre aux ouvriers révolutionnaires pour participer à cette lutte contre une « paix injuste ». Une Association libre pour l’étude du communisme allemand, fondée par des communistes et de jeunes patriotes – les frères Günther y prenaient une part active – essaya de démontrer aux socialistes et aux nationalistes la nécessité de cette lutte commune, menée dans l’intérêt de la nation et du socialisme. Bien que des contacts locaux aient eu lieu dans quelques villes, le mouvement n’eut jamais d’influence réelle sur les masses.

Lors des « Journées du Parti » à Heidelberg en 1919, le parti communiste récemment fondé prononça l’exclusion des « gauches » de Hambourg, groupés autour de Wolffheim et de Laufenberg, et celle du Groupe Spartacus et de quelques autres (les deux mouvements s’étaient joints au Parti communiste). Cette mesure avait pour cause les déviations anti-parlementaires et « syndicalistes » (dans la question des syndicats) des intéressés. Wolffheim et Laufenberg se rallièrent alors au Parti communiste ouvrier allemand, qui était en train de se former. Mais on manque total de cohésion et son absence d’unité idéologique amenèrent bientôt la dislocation du parti. Les fidèles de Wolffheim restèrent groupés dans la Ligue communiste, qui portait comme sous-titre officieux Ligue nationale-communiste. Lénine et Radek avaient jeté tout leur prestige dans la balance (la mise en garde de Lénine contre le « radicalisme » visait surtout les Hambourgeois[ii]) pour soutenir Paul Levi, adversaire de Wolffheim au sein du Parti communiste allemand. Les Hambourgeois furent isolés et leur rayon d’action se réduisit à une fraction de gauche.

Il était également impossible de rallier un nombre suffisant d’activistes de droite. Le comte Ulrich von Brockdorff-Rantzau partit en 1922 pour Moscou, en qualité d’ambassadeur d’Allemagne. Il avait l’intention de « réparer de là-bas le malheur de Versailles ». C’est à ses efforts que nous devons le traité de Rapallo du 16 avril 1922 (dont son ami Maltzan avait fait le plan) et le traité de Berlin d’avril 1926.

La variante révolutionnaire d’un national-bolchevisme allemand avait échoué. Après Rapallo, la forme évolutive de ce national-bolchevisme se poursuivit sous forme de multiples contacts entre les chefs de la Reichswehr (Seeckt et ses successeurs) et l’Union Soviétique. Nous ne pouvons entrer ici dans les détails de cette collaboration.

Les idées de Wolfheim et du « comte rouge » poursuivaient leur route souterraine.

 

L’« Union peupliste-communiste »

Les communistes firent le second pas dans la voie d’un front commun, patriotique et socialiste, contre l’Occident. Le 20 juin 1923, lors de la session du Comité exécutif élargi de l’Internationale Communiste, Karl Radek prononça son célèbre discours sur « Leo Schlageter, voyageur du néant », où il s’inclinait devant le sacrifice du saboteur nationaliste et encourageait ses camarades à poursuivre, aux côtés de la classe ouvrière révolutionnaire, la lutte commune pour la liberté nationale de l’Allemagne.

Des discussions s’ensuivirent dans Die rote Fahne et la revue allemande-peupliste Der Reichswart : Moeller van den Bruck, le comte Reventlow, Karl Radek et d’autres encore prirent la parole sur le thème : « Un bout de chemin ensemble ? ». Des rencontres eurent lieu à l’occasion. Le « mouvement national », où Adolf Hitler, le capitaine Ehrhardt et les peuplistes du Groupe Wulle-Gräfe faisaient de plus en plus parler d’eux, resta à l’écart.

Le mot d’ordre « national » du Parti communiste sonnait faux. Au fond, il a toujours sonné faux pour la majorité des activistes nationaux. En août-septembre 1930, le parti communiste allemand avait encore annoncé un programme de « libération nationale et sociale du peuple allemand »[iii]. Il avait, en outre, sous le nom de l’ex-lieutenant de la Reichswehr et nazi Richard Scheringer[iv], rassemblé quelques centaines d’ex-nazis, officiers et hommes des corps-francs, dans les milieux de « brèche » (Aufbruch), autour de la revue du même nom. Pourtant, le « national-bolchevisme » contrôlé par le Parti communiste, c’est-à-dire « dérivé », n’est jamais devenu, ni au sein du mouvement communiste ni en dehors, un facteur susceptible de déterminer la stratégie et la tactique du mouvement de masse. Il ne fut jamais qu’un instrument en marge de la NSDAP, chargé des besognes de désagrégation. Les tendances national-bolchevistes authentiques reparurent dans une direction toute différente.

 

Le « troisième parti »

Sous la République de Weimar, il a existé en Allemagne un mouvement de rébellion « jeune-national ». Ce mouvement se situait à l’« extrême-droite », à côté des partis conservateurs-nationaux, du national-socialisme, des différents groupes « peuplistes » parfois en concurrence avec lui, et des associations nationales de défense. De 1929 à 1932, il prit des formes concrètes, et son étiquette de « droite » n’eut bientôt plus rien de commun avec celle en usage dans la géographie parlementaire. On s’appelait « national-révolutionnaire », on formait ses propres groupes, on éditait ses propres journaux ou revues, ou bien on essayait d’exercer une influence morale sur des associations de défense, des groupes politiques, des mouvements de jeunesse, et de les entraîner à une révolution complète de l’état, de l’économie et de la société.

Après comme avant on restait nationaliste, mais on inclinait de plus en plus aux revendications anticapitalistes et socialistes, voire partiellement marxistes.

Ces « gauches de la droite », comme les a appelés Kurt Hiller, essayèrent d’abord d’établir, « par-dessus les associations », des relations entre radicaux de gauche et de droite, en prenant pour base leur « attitude commune anti-bourgeoise et sociale-révolutionnaire ». Lorsque le poids de l’appareil du parti eut fait, aux deux pôles, échouer ces efforts, les intéressés décidèrent de se créer leur propre plate-forme révolutionnaire dans les groupes et journaux nationaux-révolutionnaires. Le ralliement, en 1930, du Groupe Wolffheim au Groupe des nationalistes sociaux-révolutionnaires qui, dans les revues Die Kommenden et Das Junge Volk, avait commencé à construire une plate-forme de ce genre, et la fusion, dans la « résistance », des jeunes-socialiste de Hofgeismar avec le Groupe Oberland, donnèrent une vigueur nouvelle, sur un plan supérieur, aux thèses des nationaux-communistes de Hambourg. Ce fut également le cas pour certaines tendances pro-socialistes qui se manifestaient dans quelques groupes de radicaux de droite ayant joué un rôle actif en Haute-Silésie ou dans la résistance de la Ruhr.

Les groupes nationaux-révolutionnaires sont toujours restés numériquement insignifiants (depuis longtemps, l’opinion publique ne les désignait plus que du terme bien clair de « nationaux-bolchevistes » !) ; mais, sur le plan idéologique, il y avait là une sorte d’amalgame authentique entre conceptions de « droite » et conceptions de « gauche ». Le national-bolchevisme ne voulait être ni de droite ni de gauche. D’une part, il proclamait la nation « valeur absolue », et, de l’autre, voyait dans le socialisme le moyen de réaliser cette notion dans la vie du peuple.

Moeller van den Bruck fut le premier théoricien jeune-conservateur à professer de semblables idées. C’est pour des raisons uniquement publicitaires qu’il a intitulé son œuvre principale Le Troisième Reich, formule que devait usurper par la suite le mouvement hitlérien. Moeller lui-même voulait appeler son livre Le Troisième Parti. Son idée directrice était l’inverse des théories hitlériennes. Moeller van den Bruck donnait un fondement idéologique aux théories politiques du national-bolchevisme. Partant du principe que « chaque peuple a son propre socialisme », il essayait de développer les lignes principales d’un « socialisme allemand » exempt de tout schématisme internationaliste. Le « style prussien » lui paraissait l’attitude la meilleure ; aussi la position de Moeller, se tournant vers l’Est, même sur le plan politique, n’était-elle que la conséquence logique de cette parenté spirituelle. Il voulait être « conservateur » par opposition à « réactionnaire », « socialiste » par opposition à « marxiste », « démocratique » par opposition à « libéral ». C’est ici qu’apparurent pour la première fois des formules qui, par la suite, radicalisées, simplifiées et en partie utilisées de façon sommaire, formèrent une sorte de base commune pour tous les groupes nationaux-bolchevistes.

En dehors d’Oswald Spengler et de son livre Prussianisme et socialisme[v], qui cessa très vite de fasciner lorsqu’on en reconnut le caractère purement tactique, deux intellectuels venus de la social-démocratie ont contribué à la pénétration des idées socialistes dans les rangs de la bourgeoisie jeune-nationale : August Winnig et Hermann Heller. Comme l’avait fait jusqu’à un certain point le poète ouvrier Karl Broeger, Winnig et Heller avaient noué des relations, à l’époque de la résistance dans la Ruhr, avec le mouvement national de sécession dit de Hofgeismar, issu du mouvement jeune-socialiste du SPD. Foi dans le prolétariat de Winnig et Nation et socialisme de Heller furent le point de départ de rencontres fécondes entre socialistes (qui avaient reconnu la valeur du nationalisme) et nationalistes (qui avaient reconnu la nécessité du socialisme).

 

Le « nouveau nationalisme »

En outre, même dans le camp national de la « génération du front » s’élevèrent des voix rebelles. D’abord dans le cadre du Casque d’Acier, puis en marge, enfin avec la malédiction de ce mouvement, elles s’exprimèrent dans des revues comme Standarte, Arminius, Vormarsch, Das Reich, opposant un « nouveau nationalisme » au mouvement national patriotico-bourgeois, et surtout à la NSDAP. Lorsque tout espoir fut perdu d’exercer une influence au sein des grandes associations, des groupes et des partis, ils s’opposèrent résolument à tous les mots d’ordre de « communauté populaire ». « Nous en avons assez d’entendre parler de nation et de ne voir que les revenus réguliers du bourgeois. Nous en avons assez de voir mélanger ce qui est bourgeois et ce qui est allemand. Nous ne nous battrons pas une seconde fois pour que les grandes banques et les trusts administrent ’’dans l’ordre et le calme’’ l’état allemand. Nous autres nationalistes ne voulons pas, une seconde fois, faire front commun avec le capital. Les fronts commencent à se séparer ! » Pour la première fois dans le mouvement social-révolutionnaire, la frontière est franchie entre le « nouveau nationalisme » purement soldatique et le véritable national-bolchevisme. Les mots d’ordre anti-impérialistes en politique extérieure n’en étaient que la conséquence logique.

Le chef spirituel du « nouveau nationalisme » était Ernst Jünger. D’abord connu pour ses romans de guerre réalistes, il a ensuite tiré des résultats de la première guerre mondiale, sa philosophie du « réalisme héroïque », qui supprime le vieil antagonisme entre idéalisme et matérialisme. Par sa vision du Travailleur, le Jünger « première manière » encourageait les jeunes rebelles qui se tournaient vers le monde où sont en marche « la domination et la forme » du prolétariat – bien qu’il ait expressément élaboré la figure de ce travailleur en dehors des données sociologiques –, après avoir, dans La mobilisation totale, analysé et déclarée inévitable la venue d’un nouvel ordre social collectiviste. Jünger ne faisait partie d’aucun groupe, était reconnu par tous, et publia jusqu’en 1932 des articles dans beaucoup de revues représentant ces courants.

 

La plate-forme sociale-révolutionnaire

Les théories professées dans ces milieux étaient loin d’être toujours rationnelles. Franz Schauwecker déclarait : « Il fallait que nous perdions la guerre, pour gagner la nation ». On évoquait « le Reich », soit-disant caractérisé par « la puissance et l’intériorité ». Mais le programme comportait , à côté de la métaphysique , des points forts réalistes. On approuvait la lutte des classes, certains – s’inspirant d’ailleurs davantage des modèles d’auto-administration offerts par l’histoire d’Allemagne que de l’exemple russe – prônaient le système des « conseils ». On essayait de prendre contact avec les mouvements anti-occidentaux extra-allemands : mouvement d’indépendance irlandais, milieux arabes, indiens, chinois (une Ligue des peuples opprimés fut opposée à la SDN !). On défendait énergiquement l’idée d’une alliance germano-russe, on proclamait la nécessité d’une révolution allemande, d’un front commun avec le prolétariat révolutionnaire. Toutes les revendications radicales sociales-révolutionnaires avaient le même point de départ : l’opposition au traité de Versailles. Ernst Niekisch déclara un jour : « La minorité est décidée à renoncer à tout en faveur de l’indépendance nationale, et même, s’il est impossible de l’obtenir autrement, à lui sacrifier l’ordre social, économique et politique actuel ».

Ces milieux considéraient le national-socialisme comme « appartenant à l’Ouest ». Le prussianisme, le socialisme, le protestantisme – et même, jusqu’à un certain point, le néo-paganisme – furent utilisés contre le national-socialisme et ses visées « à tendances catholiques et Contre-Réforme », prétendait-on, visées qui faussaient le mot d’ordre tant socialiste que national et l’infléchissaient dans le sens du fascisme.  Bien que, dans les dernières années avant 1933, la lutte contre le mouvement hitlérien soit de plus en plus devenue l’objectif principal des nationaux-révolutionnaires, l’opinion publique a considéré à cette époque, précisément pour les raisons que nous venons de dire, les tendances nationales-bolchevistes comme un danger réel pour la République.

Le mouvement n’a jamais été centralisé. Les différents groupes et journaux n’ont jamais réussi à acquérir une cohésion réelle ; ils se sont cantonnés dans un individualisme farouche, jusqu’au moment où Hitler les élimina tous en les interdisant, et en faisant arrêter, exiler ou tuer leurs leaders. Si l’« Action de la Jeunesse » contre le Plan Young eut du moins un certain succès de presse, les groupes ne réussirent pas à se mettre d’accord sur le choix de Claus Heim comme candidat commun aux élections à la présidence du Reich. Il en fut de même, fin 1932, pour les efforts en vue de créer un parti national-communiste unique.

 

L’intelligentzia anticapitaliste

En 1932, régnait pourtant une inquiétude générale, et on se demandait – surtout dans la presse bourgeoise – si les paroles d’Albrecht Erich Guenther ne contenaient pas un peu de vrai : « La force du national-bolchevisme ne peut pas être évaluée en fonction du nombre de membres d’un parti ou d’un groupe, ni en fonction du tirage des revues. Il faut sentir combien la jeunesse radicale est prête à se rallier sans réserves au national-bolchevisme, pour comprendre avec quelle soudaineté un tel mouvement peu déborder des cercles restreints pour se répandre dans le peuple. » La formule menaçante de Gregor Strasser sur « la nostalgie anticapitaliste du peuple allemand » continuait à tinter désagréablement aux oreilles de certains, surtout à droite. 1932 était devenu l’année décisive. La NSDAP et le parti communiste faisaient marcher leurs colonnes contre l’état. Alors surgit brusquement du no man’s land sociologique un troisième mouvement qui non seulement faisait appel à la passion nationale, mais encore brandissait la menace d’une révolution sociale complète – et tout cela avec un fanatisme paraissant plus sérieux que celui du national-socialisme, dont les formules semblaient identiques aux yeux d’un observateur superficiel.

Dans les milieux qui n’avaient pourtant rien à voir avec les activistes des cercles nationaux-révolutionnaires, apparurent brusquement des thèses semblables, même si le langage en paraissait plus mesuré, plus objectif et plus réaliste. La jeune intelligentzia de tous les partis, menacée de n’avoir jamais de profession, risquait de plus en plus de devenir la proie des mots d’ordre radicalisateurs, anticapitalistes et en partie anti-bourgeois. Ces tendances se manifestèrent par la célébrité soudaine du groupe Die Tat, réuni autour de la revue mensuelle du même nom. Cette revue, issue de l’ancien mouvement jeunesse allemand-libre, était dirigée par Hans Zehrer, ancien rédacteur chargé de la politique étrangère à la Vossische Zeitung. Elle mettait en garde contre le dogmatisme stérile des radicaux de gauche et de droite, et reprenait à son compte les revendications essentielles des nationaux-révolutionnaires. La revue soutenait les attaques de Ferdinand Fried contre l’ordre capitaliste, et prenait parti, avec lui, pour une économie planifiée et une souveraineté nationale garantie – l’autarcie –, s’appropriant ainsi les mots d’ordre du mouvement hitlérien.

niekisch-titel-rgb-60mm.jpgCe « national-bolchevisme modéré », s’il est permis de s’exprimer ainsi, faillit devenir un facteur réel. Le tirage de Die Tat atteignit des chiffres jusqu’alors inconnu en Allemagne ; l’influence de ses analyses pondérées et scientifiques dépassa de loin celle des groupes nationaux-bolchevistes traditionnels.

A un certain moment, le général Schleicher commença à prendre contact avec les syndicats et avec Gregor Strasser qui, depuis la disparition des « nationaux-socialistes révolutionnaires » de son frère Otto, représentait les tendances « de gauche » au sein de la NSDAP ; il voulait asseoir dans la masse le « socialisme de général » pour lequel il avait fait une propagande assez habile et dont le slogan sensationnel était celui-ci : « La Reichswehr n’est pas là pour protéger un régime de propriété suranné. » Die Tat s’appuya alors sur cette doctrine. Zehrer prit la direction de l’ancien quotidien chrétien-social Tägliche Rundschau et se fit le défenseur d’un Troisième Front axé sur Schleicher. Après avoir, quelque temps auparavant, lancé comme mot d’ordre à l’égard des partis existants le slogan : « Le Jeune Front reste en dehors ! », ce « Troisième Front » s’avéra une simple variante « réformiste » du Front anticapitaliste des jeunes de la droite jusqu’à la gauche, représenté par les milieux nationaux-révolutionnaires. Le renvoi brutal de Schleicher par le Président Hindenburg mit également fin  cette campagne.

 

Sous l’égide du drapeau noir

Les nationaux-révolutionnaires n’avaient jamais travaillé la masse. Quelques milliers de jeunes idéalistes s’étaient rassemblés autour d’une douzaine et demi de revues et des chefs de quelques petits groupes. Lorsqu’Otto Strasser fonda en 1930 son propre groupe, appelé par la suite le Front Noir, les nationaux-révolutionnaires essayèrent de prendre contact avec lui, mais y renoncèrent bientôt. Pas plus que le Groupe Scheringer, le Groupe Strassser n’a jamais été vraiment national-révolutionnaire. Mais le mouvement que Strasser déclencha indirectement en quittant la NSDAP, provoqua beaucoup d’adhésions au national-bolchevisme. Dès avant 1933, des groupes de SA et de Jeunesse Hitlériennes ont été formés, dans quelques villes, sous l’égide – illégale – des nationaux-révolutionnaires. Mais il s’agissait là de cas isolés, et non de travail de masse.

Une seule fois, le symbole des nationaux-révolutionnaires, le drapeau noir (Moeller van den Bruck l’avait proposé comme emblème et tous les groupes nationaux-bolchevistes l’avaient accepté) a joué un rôle historique sous le régime de Weimar : dans le mouvement rural de Schleswig-Holstein (qui avait des ramifications dans le Wurtemberg, le Mecklembourg, la Poméranie, la Silésie, etc.). Claus Heim, un riche paysan plein d’expérience, devint le centre de la défense des paysans contre le « système » de Weimar. Alors des intellectuels nationaux-révolutionnaires ont eu en mains l’éducation idéologique de masses paysannes qui, naturellement, n’étaient pas du tout « nationales-bolchevistes ». Bruno et Ernst von Salomon, et bien d’autres encore, ont essayé, surtout dans les organes du mouvement rural, de donner un sens « allemand-révolutionnaire » et dépassant les intérêts locaux, aux bombes lancées contre les Landratsämter, aux expulsions des fonctionnaires du fisc venus percevoir l’impôt dans les fermes, à l’interdiction par la force des enchères.

Lorsqu’au cours du « procès des dynamiteurs », Claus Heim et ses collaborateurs les plus proches furent mis en prison, le mouvement perdit de sa force, mais la police prussienne n’était pas très loin de la vérité lorsqu’au début de l’enquête, méfiante, elle arrêta provisoirement tous ceux qui se rendaient au « Salon Salinger » à Berlin, très nationaliste. Les hommes qui y venaient n’étaient pas au courant des différents attentats, mais ils étaient les instigateurs spirituels du mouvement.

 

Les groupes de combat nationaux-révolutionnaires

Alors que le Casque d’Acier ne subissait pour ainsi dire pas l’influence des mots d’ordre nationaux-bolchevistes, et que l’Ordre jeune-allemand, axé en principe sur une politique d’alliance franco-allemande, manifestait à l’égard de ces groupes une hostilité sans équivoque, deux associations moins importantes de soldats du front, appartenant à la droite, se ralliaient assez nettement à eux : le Groupe Oberland et le Werwolf. Le Groupe Oberland avait fait partie au début du Groupe de combat allemand qui, avec les SA de Goering, était l’armature militaire du putsch de novembre 1923. Mais, dès le début, il n’y avait pas été à sa place. Ernst Röhm raconte dans ses mémoires qu’il avait eu l’intention, à une des premières « Journées allemandes », de saisir cette occasion pour proposer au prince Rupprecht la couronne de Bavière. Mais les chefs du Groupe Oberland, à qui il fit part de ses projets, lui déclarèrent nettement qu’ils viendraient avec des mitrailleuses et tireraient sur les « séparatistes » au premier cri de « Vive le roi » ; sur quoi l’ancien chef de la Reichskriegsflagge dut, en grinçant des dents, renoncer à son projet. Un autre exemple tiré de l’histoire des corps-francs montre que l’Oberland était un groupe à part : lorsqu’après le célèbre assaut d’Annaberg en 1921, le Groupe Oberland, sur le chemin du retour, traversa Beuthen, des ouvriers y étaient en grève. Comme, en général, les corps-francs étaient toujours prêts à tirer sur les ouvriers, les chefs du Groupe Oberland furent priés de briser la grève par la force des armes. Ils refusèrent.

Le corps-franc fut ensuite dissout et remplacé par le Groupe Oberland, qui édita plus tard la revue Das Dritte Reich. Très vite, les membres les plus importants du groupe se rapprochèrent, sur le plan idéologique, des nationaux-bolchevistes ; Beppo Römer, le véritable instigateur de l’assaut d’Annaberg, adhéra même au groupe communiste de Scheringer. En 1931, les sections autrichiennes du groupe, relativement fortes, élurent comme chef du groupe le prince Ernst Rüdiger von Starhemberg, chef fasciste de la Heimwehr : les nationaux-révolutionnaires quittèrent alors le groupe et, sous l’étiquette de Oberlandkameradschaft, passèrent au groupe de résistance de Ernst Niekisch, dont ils formèrent bientôt le noyau.

Un deuxième groupe de défense reprit à son compte certaines théories du mouvement national-révolutionnaire : le Werwolf (dans le Groupe de Tannenberg de Ludendorff, des voix de ce genre étaient l’exception). Le Werwolf modifia sa position pour deux raisons : premièrement, ce groupe comptait dans ses rangs un nombre relativement grand d’ouvriers, qui exerçaient une pression très nette en faveur d’un nationalisme « non-bourgeois » ; deuxièmement, son chef, le Studienrat Kloppe, éprouvait le besoin constant de se différencier des groupes plus importants. Comme les « nouveaux nationalistes » étaient tombés en disgrâce auprès du Casque d’Acier, de la NSDAP et du DNVP, le Werwolf se rapprocha d’eux de façon spectaculaire. Lorsqu’Otto Strasser, après avoir lancé son appel « Les socialistes quittent le Parti », fonda en 1930 le groupe du « véritable national-socialisme », Kloppe, dont les idées coïncidaient pourtant parfaitement avec celles de Strasser, ne se rallia pas à lui : il fonda un groupe dissident, appelé « possédisme [vi]». Les membres du groupe, en majorité plus radicaux, ne prirent pas trop au sérieux cette nouvelle doctrine, mais obtinrent que le bulletin du groupe représentât en général, pour le problème russe comme sur le plan social, le point de vue qu’avaient adoptés, en dehors des organes déjà mentionnés, Der junge Kämpfer, Der Umsturz (organe des « confédérés »), Der Vorkämpfer, (organe du Jungnationaler Bund, Deutsche Jungenschaft), et d’autres encore. En 1932, le Werwolf décida brusquement, de son propre chef, de présenter des candidats aux élections communales, renonçant ainsi à son antiparlementarisme de principe.

 

Typologie du national-bolchevisme

La plupart des membres des groupes nationaux-révolutionnaires étaient des jeunes ou des hommes mûrs. On y comptait aussi un nombre relativement élevé d’anciens membres ou de militants appartenant aux associations de la Jugendbewegung.

Aucun groupe important de l’Association de la Jeunesse n’était en totalité national-bolcheviste. Mais presque chaque groupe comptait des sympathisants ou des adhérents des mouvements nationaux-révolutionnaires. Les organes nationaux-révolutionnaires ont exercé une action indirecte relativement grande sur les groupes et, inversement, le monde romantique de la Jugendbewegung a influencé la pensée et le style des nationaux-révolutionnaires.

Si l’on fait abstraction du mouvement rural révolutionnaire, du Groupe Oberland et du Werwolf, presque tous les groupes nationaux-bolchevistes ont intégré certains éléments de la Jugendbewegung dans la structure de leurs groupes : groupes d’élites basés sur le principe du service volontaire. La minorité – mais très active – était composée d’anciens membres de la jeunesse prolétarienne, d’anciens communistes ou sociaux-démocrates, presque tous autodidactes ; la majorité comprenait des membres de l’Association de la Jeunesse, d’anciens membres des corps-francs et des associations de soldats, des étudiants – et des nationaux-socialistes déçus à tendance « socialistes ». Seul le groupe Die Tat a recruté des membres dans le « centre » politique.

Au fond, tous ces jeunes étaient plus ou moins en révolte contre leur classe : jeunesse bourgeoise désireuse de s’évader de l’étroitesse du point de vue bourgeois et possédant, jeunes ouvriers décidés à passer de la classe au peuple, jeunes aristocrates qui, dégoûtés des conceptions sclérosées et surannées sur le « droit au commandement » de leur classe, cherchaient à prendre contact avec les forces de l’avenir. Sous forme de communautés d’avant-garde analogues à des ordres religieux, des outsiders sans classe de l’« ordre bourgeois » cherchaient dans le mouvement national-révolutionnaire une base nouvelle qui, d’une part, fasse fructifier certains points essentiels de leur ancienne position (éléments sociaux-révolutionnaires et nationaux-révolutionnaires de « gauche » ou de « droite »), et, d’autre part, développe certaines tendances séparatistes d’une « jeunesse nouvelle » dotée d’une conscience souvent exacerbée de sa mission.

Les hommes qui se rassemblaient là avaient un point commun : non pas l’origine sociale, mais l’expérience sociale. Nous ne songeons pas ici uniquement au chômage, à la prolétarisation des classes moyennes et des intellectuels, avec toutes ses conséquences. Tous ces faits auraient dû, au cours de la radicalisation générale des masses, mener au national-socialisme ou au communisme. Mais, à côté de cette expérience négative, il y en avait une positive : celle d’une autre réalité sociale – l’expérience de la communauté dans le milieu sélectionné que représentaient les « associations » de toutes sortes. En outre – il s’agissait, à quelques exceptions près, des générations nées entre 1900 et 1910 – ces groupes se heurtaient au mutisme des partis politiques existants, lorsqu’ils leur posaient certaines questions.

Aussi le mouvement national-révolutionnaire fut-il, pour tous ceux qui ne se rallièrent pas aveuglément au drapeau hitlérien, une sorte de lieu de rassemblement, un forum pour les éléments de droite et de gauche éliminés à cause de leur sens gênant de l’absolu : collecteur de tous les activistes « pensants » qui essayaient, souvent de façon confuse mais du moins en toute loyauté, de combler l’abîme entre la droite et la gauche.

Tout cela a parfois conduit à des excès de toutes sortes, à un certain romantisme révolutionnaire, à un super-radicalisme trop souvent exacerbé (surtout parce qu’il manquait le correctif d’un mouvement démocratique de masse). Il n’en reste pas moins vrai qu’un certain nombre de jeunes intellectuels de la bourgeoisie « nationale » ont été, grâce à cela, immunisés contre les mots d’ordre contradictoires de la NSDAP. Même dans les organismes militants du national-socialisme, le mouvement national-révolutionnaire a rappelé à l’objectivité et suscité des germes de révolte.

Cette vague de national-bolchevisme allemand n’eut pas d’influence politique. La prise du pouvoir par les nazis mit fin à ses illusions – et à ses chances.

 

Conclusion

Le national-bolchevisme appartient aujourd’hui à l’histoire. Même ses derniers adhérents, la résistance, si lourde de sacrifices, qu’ont menée, dans la clandestinité, beaucoup de ses membres contre le régime hitlérien, la brève flambée de tactique « nationale-bolcheviste » inspirée par les communistes et dirigée par Moscou, tout cela n’est plus que de l’histoire. Quelques-uns des nationaux-révolutionnaires les plus connus ont capitulé devant le national-socialisme. Rappelons ici, à la place de certains autres, le nom de Franz Schauwecker. Exécution, réclusion, camp de concentration, expatriation, furent le lot des résistants appartenant au mouvement national-révolutionnaire – et celui de tous les adversaires de Hitler.

Comme exemple de lutte active et clandestine sous le régime hitlérien, citons Harro Schulze-Boysen, chef du Groupe des adversaires (de Hitler), et Ernst Niekisch, l’un des rares qui, après 1945, « suivirent le chemin jusqu’au bout », c’est-à-dire se rallièrent au SED. La plupart de ceux qui représentèrent autrefois les tendances nationales-révolutionnaires ont adopté des idées nouvelles : c’est le cas de Friedrich Hielscher et du Ernst Jünger « seconde manière ». Ils ont continués à bâtir sur des bases consolidées.

Lorsque le Front National d’Allemagne orientale (pâle copie de la ligne « nationale » du Parti communiste allemand représentée pendant la guerre par le Comité National de l’Allemagne Libre de Moscou et l’Union des officiers allemands du général von Seydlitz), le Mouvement des sans-moi[vii] et la propagande en faveur de « conversations entre représentants de toute l’Allemagne » cherchent à mettre en garde contre le mouvement national-bolcheviste d’autrefois, ou au contraire se réfèrent à lui, ils sont dans l’erreur la plus totale. D’autres réalités en matière de politique mondiale ont créé des problèmes nouveaux – et des buts nouveaux –.

Le compte-rendu – incomplet – que nous avons essayé de faire ici ne tend ni à défendre ni à démolir certaines prises de position de naguère. Les faits parlent d’eux-mêmes.

Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932 a été une tentative légitime pour former la volonté politique des Allemands. Personne ne peut dire avec certitude si, arrivé à son apogée, il aurait été une variante positive et heureuse, ou au contraire haïssable, de la révolte imminente (inspirée par l’idée collectiviste) des générations intermédiaires contre l’état bourgeois. Il s’est limité à des déclarations grandiloquentes, en fin de compte pré-politiques : la chance de faire ses preuves dans la réalité quotidienne lui a été refusée.

La majorité de ses représentants ont été des hommes intègres, désintéressés et loyaux, ce qui facilite peut-être aujourd’hui, même à ses adversaires de naguère, la tâche de le considérer uniquement, en toute objectivité et sans ressentiment, comme un phénomène historique.

(Aussenpolitik d’avril 1952)

 

 

 

Annexes

Le texte complet du Traité de Versailles (1919) peut être consulté sur le site :
http://mjp.univ-perp.fr/traites/1919versailles.htm

Sur Karl Otto Paetel, on lira l’intéressant article de Luc Nannens, intitulé « K.O. Paetel, national-bolcheviste » et paru dans le N° 5 de la Revue VOULOIR, désormais disponible sur le site suivant : http://vouloir.hautetfort.com/archive/2010/10/10/paetel.html (augmenté de références bibliographiques et de renvois à des articles complémentaires sur le thème).

Nos lecteurs anglophones pourront également consulter, les « Karl M. Otto Paetel Papers » sur http://library.albany.edu/speccoll/findaids/ger072.htm#history. On peut y mesurer la « masse » des écrits de K.O. Paetel non traduits en français à ce jour.

 

Sur Claus Heim et le Landvolkbewegung, on consultera avec profit la thèse de Michèle Le Bars, Le mouvement paysan dans le Schleswig-Holstein 1928-1932. Peter Lang, Francfort sur Main / Berne / New-York, 1986 (une brève biographie de Claus Heim fait partie des documents en annexe) mais aussi Michèle Le Bars, Le « général-paysan » Claus Heim : tentative de portrait, in Barbara Koehn (dir.) La Révolution conservatrice et les élites intellectuelles. Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2003. Bien évidemment pour des versions romancées, mais faisant revivre les événements de façon saisissante, on lire La Ville, d’Ernst von Salomon et Levée de fourches, de Hans Fallada.

 

Sur le Groupe Die Tat : on peut lire l’article d’Alex[andre] M[arc] Lipiansky, paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°60, du 15 octobre 1932, Paris, intitulé : « Pour un communisme national. La revue Die Tat. ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°11, automne-hiver 1996, Marseille. Il est également disponible sur le site de la BNF : http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5405292f.r=%22die+t.... D’autre part, Edmond Vermeil, dans son ouvrage Doctrinaires de la révolution allemande 1918-1932, (Fernand Sorlot, Paris, 1938) consacre le chapitre IV au Groupe de la « Tat » (aperçus disponibles sur Google Livres).

 

Sur le groupe des Adversaires (Gegner) on peut lire l’article d’Alexandre Marc paru dans La revue d’Allemagne et des Pays de langue allemande, N°66, du 15 avril 1933, Paris, intitulé : « Les Adversaires (Gegner) ». Cet article a été republié intégralement par le bulletin privé C’est un rêve, N°12, automne-hiver 1996, Marseille. On peut aussi le retrouver sur Gallica (en cherchant bien !)

 

 

NOTES



[i] Source : Documents - Revue mensuelle des questions allemandes - no 6/7 - juin-juillet 1952, pp.648-663 : Karl  A Otto Paetel "Le national-bolchevisme allemand de 1918 à 1932". Il s’agit de la traduction de l’article "Der deutsche Nationalbolschewismus 1918/1932. Ein Bericht," paru dans Außenpolitik, No. 4 (April 1952). [NDLR]

[ii] Karl Otto Paetel fait bien évidemment référence ici au livre de Lénine Le gauchisme, maladie infantile du Communisme : « Mais en arriver sous ce prétexte à opposer en général la dictature des masses à la dictature des chefs, c'est une absurdité ridicule, une sottise. Le plaisant, surtout, c'est qu'aux anciens chefs qui s'en tenaient à des idées humaines sur les choses simples, on substitue en fait (sous le couvert du mot d'ordre "à bas les chefs!") des chefs nouveaux qui débitent des choses prodigieusement stupides et embrouillées. Tels sont en Allemagne Laufenberg, Wolfheim, Horner, Karl Schroeder, Friedrich Wendel, Karl Erler. » et plus loin : « Enfin, une des erreurs incontestables des "gauchistes" d'Allemagne, c'est qu'ils persistent dans leur refus de reconnaître le traité de Versailles. Plus ce point d e vue est formulé avec "poids" et "sérieux", avec "résolution" et sans appel, comme le fait par exemple K. Horner, et moins cela paraît sensé. Il ne suffit pas de renier les absurdités criantes du "bolchevisme national" (Laufenberg et autres), qui en vient à préconiser un bloc avec la bourgeoisie allemande pour reprendre la guerre contre l'Entente, dans le cadre actuel de la révolution prolétarienne internationale. Il faut comprendre qu'elle est radicalement fausse, la tactique qui n'admet pas l'obligation pour l'Allemagne soviétique (si une République soviétique allemande surgissait à bref délai) de reconnaître pour un temps la paix de Versailles et de s'y plier. » (in Lénine, Œuvres complètes, Vol 31, p.37 et p. 70) [NDLR]

[iii] Le texte complet du « Programme » a été traduit par Louis Dupeux et joint aux documents accompagnant sa thèse Stratégie communiste et dynamique conservatrice. Essai sur les différents sens de l'expression « National-bolchevisme » en Allemagne, sous la République de Weimar (1919-1933), 2 volumes, Honoré Champion, Paris, 1976. [NDLR]

[iv] Sur Richard Scheringer, on consultera à profit l’article (en anglais) de Thimoty S. Brown, Richard Scheringer, the KPD and the Politics of Class and Nation in Germany: 1922-1969, in Contemporary European History, August 2005, Volume 14, Number 1

disponible sur le net :

http://www.history.neu.edu/faculty/timothy_brown/1/docume....

[v] Il existe une traduction française de ce livre : Oswald Spengler, Prussianisme et socialisme, Actes Sud, Arles, 1986.

[vi] Cf. Fritz KLOPPE, Der possedismus. Die neue deutsche wirtschaftsordnung. Gegen kapitalismus und marxistischen sozialismus; gegen reaktion und liberalismus., Wehrwolf-verlag, Halle, 1931

 

[vii] « Ohne mich-Bewegung » mené par Kurt Schumacher et dont les protestations seront portées par les syndicats, les intellectuels, les groupes chrétiens et les groupes féministes (en particulier la Westdeutsche Frauenfriedensbewegung).

mercredi, 29 décembre 2010

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset

Crédits photographiques : Yao Dawei (AP Photo/Xinhua).

"La révolte des masses" de José Ortega y Gasset
 
À propos de José Ortega y Gasset, La révolte des masses (préface de José Luis Goyenna, La vie comme exigence de liberté, Les Belles Lettres (voici le tout nouveau blog de la librairie), coll. Bibliothèque classique de la liberté, 2010).
LRSP (livre reçu en service de presse).

Ex: http://stalker.hautetfort.com/
 
Essai paradoxal (ainsi de ses images, bien souvent frappantes), dans une époque de «descentes et de chutes», de «sérénité dans la tourmente», exploration altière mais jamais prétentieuse du problème de l'homme actuel pour laquelle «il faudrait se résoudre à endosser la tenue des abîmes, vêtir le scaphandre» (1) voici quelques-unes des expressions que l'auteur utilise au sujet de son propre livre.
Observons de quel étrange éclat se parent les mots que José Ortega y Gasset écrivit dans sa Préface pour le lecteur français ajoutée en 1937 à son ouvrage le plus connu, si l'on se souvient que Malcolm Lowry, après la publication de Sous le volcan en 1947, lut le livre et l'aima, lui qui n'hésita point, pour accompagner le Consul là où il fallait qu'il descende, à revêtir un scaphandre capable de le mener aux plus terrifiantes profondeurs.
jose-ortega-y-gasset1.jpgSans doute le grand romancier trouva-t-il aussi dans le livre du philosophe, comme le remarque José Luis Goyenna dans son intéressante (quoique pleine de fautes) préface, en plus d'images étonnantes bien propres à enthousiasmer l'écrivain, une authentique philosophie de la liberté comme accomplissement métaphysique du moi qui, à la différence de celle de Sartre qualifiée par l'auteur d'Ultramarine de «pensée de seconde main» (2), ne se dépêcherait pas bien vite de déposer aux pieds de l'idole le fardeau trop pesant, enchaînant ainsi la liberté à la seule discipline stupide des masses. Tout lecteur de La révolte des masses aime je crois, en tout premier lieu, l'écriture de ce livre érudit, pressé, menaçant, parfois prodigieusement lucide et même, osons ce mot tombé dans l'ornière journalistique, prophétique.
Peut-être trouva-t-il aussi dans ce livre, outre de fulgurantes vues (3), une intention purement kierkegaardienne, aussi rusée que profondément ironique, la sourde volonté consistant à faire comprendre à son lecteur que ce texte, sous les dehors débonnaires d'un essai sur la situation de l'homme européen au sortir de la Première Guerre mondiale, se proposait rien de moins que retourner comme un gant son esprit (et son âme ?), comme veulent toujours le faire, même s'ils prétendent le contraire, les plus grands romans : «C’est la raison pour laquelle le livre doit devenir de plus en plus comme un dialogue caché; il faut que le lecteur y retrouve son individualité, prévue, pour ainsi dire, par l’auteur; il faut que, d’entre les lignes, sorte une main ectoplasmique qui nous palpe, souvent nous caresse ou bien nous lance, toujours poliment, de bons coups de poing» (p. 49). La main ectoplasmique et le coup de poing, nouveaux moyens de réveiller les consciences libres du sommeil dogmatique dans lequel un sort mystérieux les a plongées ?
Quoi qu'il en soit, nous comprenons que l'intention du penseur espagnol est double. Le livre d'Ortega y Gasset semble fonctionner, à vrai dire, comme les ouvrages si profondément retors et érudits de Leo Strauss. D'abord, l'exposé des thèses qui permettent de caractériser le désarroi que constate l'auteur dans le monde occidental. Ensuite (si je puis dire, maladroitement, puisque ces deux phases exotériques ne forment qu'une seule et même phrase complexe, voire ésotérique), ayant défini ce qu'il entendait par l'homme-masse, le fait, subrepticement, de confronter celui qui le lit à une interrogation dont la réponse ne pourra que le glacer ou bien le conforter : est-il, oui ou non, un des innombrables représentants de la masse ? Est-il, ce lecteur lisant un livre qui claque comme un fouet (ou vous administre, poliment, un roboratif coup de poing), un homme creux ou bien un homme qui, après avoir lu, se convertira et agira ?
Intention éminemment existentialiste disais-je et nous pourrions ajouter, socratique, kierkegaardienne bien sûr, puisqu'il s'agit de faire prendre conscience que l'homme des masses n'est jamais l'autre, mais, bien sûr, soi-même non pas comme un autre selon la belle expression de Paul Ricœur, mais soi-même comme tous les autres, soi-même comme termite perdue au sein de la termitière à laquelle, patiemment, inexorablement, nous œuvrons.
Examinons ce qu'est, aux yeux d'Ortega y Gasset, l'homme-masse, au travers de quelques-unes de ses caractéristiques comme, en premier lieu, l'oubli (ou plutôt l'occultation) du passé. «Cet homme-masse écrit l'auteur, c’est l’homme vidé au préalable de sa propre histoire, sans entrailles de passé, et qui, par cela même, est docile à toutes les disciplines dites «internationales». Plutôt qu’un homme c’est une carapace d’homme, faite de simples idola fori. Il lui manque un «dedans», une intimité inexorablement, inaliénablement sienne, un moi irrévocable» (p. 58).
La volonté de faire table rase, si propre aux révolutions (4), ne peut que conduire à la ruine, mener l'homme jusqu'à la barbarie : «Le vrai trésor de l’homme, c’est le trésor de ses erreurs. Nietzsche définit pour cela l’homme supérieur comme l’être «à la plus longue mémoire». Rompre la continuité avec le passé, vouloir commencer de nouveau, c’est aspirer à descendre et plagier l’orang-outang» (p. 77).
C'est aussi s'engluer dans un présent définitif. Assez ironiquement bien que cette ironie ne puisse d'aucune façon être mise sur le compte, nous le verrons, d'une velléité réactionnaire, José Ortega y Gasset critique la croyance au progrès indéfini des connaissances et des techniques : «Sous le masque d’un généreux futurisme, l’amateur de progrès ne se préoccupe pas du futur; convaincu de ce qu’il n’offrira ni surprises, ni secrets, nulle péripétie, aucune innovation essentielle; assuré que le monde ira tout droit, sans dévier ni rétrograder, il détourne son inquiétude du futur et s’installe dans un présent définitif. On ne s’étonnera pas de ce que le monde paraisse aujourd’hui vide de projets, d’anticipations et d’idéals» (pp. 116-7).
Cette volonté maladive de détruire le passé, de vivre dans le perpétuel présent de l'animal, porte ses conséquences néfastes sur le présent comme sur l'avenir : «Et cela c’est être un peuple d’hommes : pouvoir prolonger son hier dans son aujourd’hui sans cesser pour cela de vivre pour le futur, pouvoir exister dans le vrai présent, puisque le présent n’est que la présence du passé et de l’avenir, le lieu où ils sont effectivement passé et avenir» (p. 79). C'est ainsi que, a contrario, l'Angleterre sera analysée par Ortega y Gasset comme le peuple de l'infinie prévoyance, le peuple composé d'hommes qui ne sont point encore les rouages d'une immense machine même si, comme le soulignera le philosophe, ce même peuple a pu se fourvoyer dans le pacifisme : «Ce peuple circule dans tout son temps; il est véritablement seigneur de ses siècles dont il conserve l’active possession» (pp. 78-9).
La révolte des masses, due à la désertion des élites (La désertion des minorités dirigeantes se trouve toujours au revers de la révolte des masses, pp. 116-7), doit aussi sa cause directe dans le fait que la société dans laquelle vivent les hommes ne les contraint plus à vouloir se dépasser. Si le monde ancien était le monde d'un danger permanent, fulgurant, notre époque est celle de la paralysie provoquée par le triomphe du machinisme, la réduction des territoires inexplorés, le prodigieux accroissement des sciences et des techniques contraints de se cantonner dans l'hyper-spécialisation, de la fuite des dieux : «Le monde qui entoure l’homme nouveau depuis sa naissance ne le pousse pas à se limiter dans quelque sens que ce soit, ne lui oppose nul veto, nulle restriction, mais au contraire avive ses appétits, qui peuvent, en principe, croître indéfiniment. Il arrive donc – et cela est très important – que ce monde du XIXe siècle et des débuts du XXe siècle non seulement a toutes les perfections et l’ampleur qu’il possède de fait, mais encore suggère à ses habitants une certitude totale que les jours qui vont suivre seront encore plus riches, plus vastes, plus parfaits, comme s’ils bénéficiaient d’une croissance spontanée et inépuisable» (pp. 130-1).
Ainsi, la vie des hommes du passé, quoique truffée de dangers, était synonyme de dépassement, du moins de possibilité de se dépasser. L'homme-masse est l'homme étriqué, fermé, tandis que l'homme du passé est celui de l'ouverture dans un monde lui-même ouvert à ses innombrables et sanglantes conquêtes : «De cette manière la vie noble reste opposée à la vie médiocre ou inerte, qui, statiquement, se referme sur elle-même, se condamne à une perpétuelle immanence tant qu’une force extérieure ne l’oblige à sortir d’elle-même. C’est pourquoi nous appelons «masse» ce type d’homme, non pas tant parce qu’il est multitudinaire que parce qu’il est inerte» (p. 139).
L'homme-masse est un être dépossédé. Il n'a plus de passé et, parce qu'il l'a perdu, il n'a plus de futur. Il n'est même pas certain, nous l'avons vu, qu'il puisse se targuer de vivre dans la paix perpétuelle d'un présent sans bornes, délesté du poids de ce qui l'a forgé : «L’homme-masse, écrit encore Ortega y Gasset, est l’homme dont la vie est sans projets et s’en va à la dérive. C’est pourquoi il ne construit rien, bien que ses possibilités et que ses pouvoirs soient énormes» (p. 121).
L'homme-masse est un être doublement dépossédé puisqu'il ne sait plus parler. Étrangement, José Ortega y Gasset évoque la dégénérescence du langage de l'homme-masse, qu'il assimile, pour les besoins de sa démonstration, à un habitant de l'Empire, en la rapprochant de celle du latin vulgaire : ainsi, «le symptôme et en même temps le document le plus accablant de cette forme à la fois homogène et stupide – et l’un par l’autre – que prend la vie d’un bout à l’autre de l’empire se trouve où l’on s’y attendait le moins et où personne, que je sache, n’a encore songé à le chercher : dans le langage» (p. 67). L'auteur poursuit en donnant la caractéristique principale du latin vulgaire : «Le premier [trait] est l’incroyable simplification de son organisme grammatical comparé à celui du latin classique» (p. 68), poursuivant : «Le second trait qui nous atterre dans le latin vulgaire, c’est justement son homogénéité. Les linguistes qui, après les aviateurs, sont les moins pusillanimes des hommes, ne semblent pas s’être particulièrement émus du fait que l’on ait parlé la même langue dans des pays aussi différents que Carthage et la Gaule, Tingis et la Dalmatie, Hispalis et la Roumanie. Mais moi qui suis peureux et tremble quand je vois le vent violenter quelques roseaux, je ne puis, devant ce fait, réprimer un tressaillement de tout le corps. Il me paraît tout simplement atroce» (Ibid).
Cette perte du passé qui doit être éradiqué pour laisser se lever de nouveaux soleils d'acier sur une humanité rédimée, cette destruction de toute conscience historique, cette rupture de la continuité, pour employer les mots de Max Picard, ainsi que la simplification du langage, sont les marques des deux principales forces politiques (bolchevisme et fascisme) qui se partagent l'Europe à l'époque où Ortega y Gasset écrit son essai, deux forces remarquablement décrites comme étant des puissances régressives, entropiques, une intuition qui ne deviendra une évidence voire un cliché, pour nombre d'auteurs comme Elias Canetti et à propos du nazisme (5), que des années après la parution de La Révolte des masses : «Mouvements typiques d’hommes-masses écrit d'eux l'auteur, dirigés, comme tous ceux qui le sont, par des hommes médiocres, intempestifs, sans grande mémoire, sans «conscience historique», ils se comportent, dès leur entrée en scène, comme s’ils était déjà du passé, comme si, arrivant à l’heure actuelle, ils appartenaient à la faune d’autrefois» (p. 167). Et l'auteur de poursuivre : «L’un et l’autre – bolchevisme et fascisme – sont deux fausses aurores; ils n’apportent pas le matin de demain; mais celui d’un jour ancien, qui a servi une ou plusieurs fois; ils relèvent du primitivisme. Et il en sera ainsi de tous les mouvements sociaux qui seront assez naïfs pour engager une lutte avec telle ou telle portion du passé, au lieu de chercher à l’assimiler» (pp. 168-9).
L'homme-masse, sans passé, ne vivant que dans un présent qui refuse d'envisager l'avenir autrement que comme la réalisation de rêves somptueux, colossaux (6), l'homme-termite qui est un homme creux, démoralisé, ne peut que se révolter. L'homme-masse, même, n'a pas de vie, et c'est cette absence de vie qui le livrera tout entier, comme un seul homme à la voix envoûtante des dictateurs, dont le règne est annoncé par l'auteur : «Car vivre, c’est avoir à faire quelque chose de déterminé – remplir une charge –, et dans la mesure où nous évitons de vouer notre existence à quelque chose, nous rendrons notre vie de plus en plus vide. On entendra bientôt par toute la planète un immense cri, qui montera vers les étoiles, comme le hurlement de chiens innombrables, demandant quelqu’un, quelque chose qui commande, qui impose une activité ou une obligation» (p. 212).
Cette révolte des masses, provoquée par n'importe quel événement (7), n'est elle-même qu'un leurre, puisqu'elle choisit comme vecteurs le fascisme et le nazisme qui sont condamnés à disparaître, qui ne sont qu'un interrègne (8) : «Je vais maintenant résumer la thèse de cet essai : le monde souffre aujourd’hui d’une grave démoralisation qui se manifeste – entre autres symptômes – par une révolte effrénée des masses; cette démoralisation générale a son origine dans une démoralisation de l’Europe dont les causes sont multiples. L’une des principales est le déplacement de ce pouvoir que notre continent exerçait autrefois sur le reste du monde et sur lui-même. L’Europe n’est plus sûre de commander, ni le reste du monde d’être commandé. La souveraineté historique se trouve aujourd’hui en pleine dispersion» (p. 254).
Ayant soigneusement posé son diagnostic sur la maladie du siècle, Ortega y Gasset, en bon docteur, délivre son ordonnance qui, elle aussi, a valeur d'étonnante prémonition, de véritable prophétie (9) : l'Europe !
C'est sans doute la grande thèse de José Ortega y Gasset, s'accompagnant d'une remise en question cinglante de l'idée, si répandue, de la décadence de l'Occident, qui fait qu'on ne peut l'accuser d'être passéiste ou même réactionnaire, comme tant de mauvais lecteurs l'affirmèrent au moment de la parution du magistral essai : «Mais arrêtez l’individu qui l’énonce [l’idée de décadence de l’Europe] d’un geste léger, et demandez-lui sur quels phénomènes concrets et évidents il fonde son diagnostic; vous le verrez faire aussitôt des gestes vagues, et pratiquer cette agitation des bras vers la rotondité de l’univers, caractéristique de tout naufragé. De fait, il ne sait pas où s’accrocher. La seule chose qui apparaisse sans grandes précisions lorsqu’on veut définir l’actuelle décadence de l’Europe, c’est l’ensemble des difficultés économiques devant lesquelles se trouve aujourd’hui chacune des nations européennes. Mais quand on veut préciser un peu le caractère de ces difficultés, on remarque qu’aucune d’elles n’affecte sérieusement le pouvoir de création de richesses, et que l’Ancien Continent est passé par des crises de ce genre beaucoup plus graves» (p. 221).
L'Europe, incontestablement la puissance civilisatrice du monde, est appelée par l'auteur à son propre dépassement afin, une nouvelle fois, de montrer la voie à prendre et, ainsi, sauver le monde qui se trouve au bord de l'abîme : «La véritable situation de l’Europe en arriverait donc à être celle-ci : son vaste et magnifique passé l’a fait parvenir à un nouveau stade de vie où tout s’est accru; mais en même temps, les structures survivantes de ce passé sont petites et paralysent son expansion actuelle. L’Europe s’est constituée sous forme de petites nations. En un certain sens, l’idée et les sentiments nationaux ont été son invention la plus caractéristique. Et maintenant elle se voit obligée de se dépasser elle-même. Tel est le schéma du drame énorme qui va se jouer dans les années à venir. Saura-t-elle se libérer de ses survivances ou en restera-t-elle prisonnière ? car il est déjà arrivé une fois dans l’histoire qu’une grande civilisation est morte de n’avoir pu modifier son idée traditionnelle de l’État…» (p. 225).
Et une nouvelle fois d'exhorter les élites éclairées et les gouvernements à unir les nations européennes pour donner un nouveau sens à l'idée, caduque ou du moins figée dans la tradition (10), d'État-nation : «On ne voit guère quelle autre chose d’importance nous pourrions bien faire, nous qui existons de ce côté de la planète, si ce n’est de réaliser la promesse que, depuis quatre siècles, signifie le mot Europe. Seul s’y oppose le préjugé des vieilles «nations», l’idée de nation en tant que passé» (p. 254).
Je ne sais s'il ne serait pas trop facile de faire remarquer à l'auteur, s'il vivait encore, que l'édification de l'Europe qu'il appelait de ses vœux les plus ardents allait être à la source de l'hyperdémocratie routinière qu'il accablait par ailleurs, comme illustration monstrueuse d'une démocratie directe, la démocratie des masses (11) qui s'exerce par une force qui n'est plus ultima mais prima ratio (12) : «Aujourd’hui nous assistons au triomphe d’une hyperdémocratie dans laquelle la masse agit directement sans loi, imposant ses aspirations et ses goûts au moyen de pressions matérielles» (p. 89).
Et, de cette action de la masse fascinée par les mots vides pas encore totalement débarrassés de leur ancien prestige (13), l'intelligence de José Ortega y Gasset ne consiste-t-elle pas à nous avoir donné un synonyme, la barbarie, qui est du reste l'inverse même, notons-le, de ce recours aux forêts prôné par Jünger ? : «La civilisation n’est pas vraiment là, elle ne subsiste pas par elle-même, elle est artifice et requiert un artiste ou un artisan. Si vous voulez profiter des avantages de la civilisation, mais sans vous préoccuper de la soutenir… tant pis pour vous ; en un clin d’œil, vous vous trouverez sans civilisation. Un instant d’inattention, et lorsque vous regarderez autour de vous, tout se sera volatilisé. Comme si l’on avait brusquement détaché les tapisseries qui dissimulent la nature vierge, la forêt primitive reparaîtra, comme à son origine. La forêt est toujours primitive, et vice versa, tout le primitif est forêt» (p. 163).

Notes
(1) Voir la Préface pour le lecteur français, pp. 47, 71 et 81. Voici l'une des expressions qu'utilise le philosophe dans son contexte : «Il y a des époques surtout où la réalité humaine, toujours mobile, précipite sa marche, s’emballe à des vitesses vertigineuses. Notre époque est de celles-là. C’est une époque de descentes et de chutes», José Ortega y Gasset, La Révolte des masses [La rebellión de las masas, 1930] (Les Belles Lettres, traduit de l’espagnol par Louis Parrot, préface de José Luis Goyena, 2010), p. 47. Toutes les pages entre parenthèses renvoient à cette édition.
(2) Voir José Lasaga Medina, Malcolm Lowry, lector de Ortega, suivi de Malcolm Lowry, Carta a Downey Kirk, Revista de Estudios Orteguianos, n°18, 2009, Fundación José Ortega y Gasset.
(3) «Tout destin est dramatique et tragique si on le scrute jusqu’au fond. Celui qui n’a pas senti sous sa main palpiter le péril du temps n’est pas arrivé jusqu’au cœur du destin, et, si l’on peut dire, n’a fait qu’en effleurer la joue morbide» (p. 93).
(4) «Dans les révolutions, l’abstraction essaie de se soulever contre le concret. Aussi la faillite est-elle consubstantielle à toute révolution» (p. 75).
(5) Elias Canetti qui décrit, d'une façon toute expressionniste, l'atmosphère explosive du Berlin de l'entre-deux guerres : «L'aspect animal et l'aspect intellectuel, mis au jour et portés à leur apogée, se trouvaient en interaction, comme une sorte de courant alternatif. Quiconque s'était éveillé à sa propre animalité avant d'arriver à Berlin devait la pousser à son maximum pour pouvoir s'affirmer contre celle des autres et se retrouvait ensuite usé et ruiné, si l'on n'était pas d'une solidité exceptionnelle. Celui qui en revanche était dominé par son intellect et qui n'avait encore que peu cédé à son animalité ne pouvait que succomber à la richesse complexe de ce qui était proposé à son esprit. [...] On se traînait ainsi dans Berlin comme un morceau de viande avancée, on ne se sentait pourtant pas encore assez battu et l'on guettait les nouveaux coups», in Histoire d'une vie. Le flambeau dans l'oreille, 1921-1931 (Albin Michel, 1982), p. 314.
(6) «L’époque des masses, c’est l’époque du colossal» (p. 91).
(7) Voir cette image saisissante, où s'annonce un danger que José Ortega y Gasset semble voir confusément : «Quant à l’occasion qui subitement portera le processus à son terme, elle peut être Dieu sait quoi ! la natte d’un Chinois émergeant de derrière les Ourals ou bien une secousse du grand magma islamique» (p. 55).
(8) Notons la justesse de cette vue : «La vie actuelle est le fruit d’un interrègne, d’un vide entre deux organisations du commandement historique : celle qui fut et celle qui sera. C’est ce qui explique pourquoi elle est essentiellement provisoire. Les hommes ne savent pas plus quelles institutions ils doivent vraiment servir que les femmes ne savent quels types d’hommes elles préfèrent réellement. Les Européens ne savent pas vivre, s’ils ne sont engagés dans une grande entreprise qui les unit. Quand elle fait défaut, ils s’avilissent, s’amollissent, leur âme se désagrège. Nous avons aujourd’hui un commencement de désagrégation sous nos yeux. Les cercles qui, jusqu’à nos jours, se sont appelés nations, parvinrent, il y a un siècle, ou à peu près, à leur plus grande expansion. On ne peut plus rien faire avec eux si ce n’est que les dépasser» (p. 256).
(9) «Il est de moins en moins possible de mener une politique saine sans une large anticipation historique, sans prophétie. Les catastrophes actuelles parviendront peut-être à rouvrir les yeux des politiques sur le fait évident que certains hommes, de par les sujets auxquels ils consacrent presque tout leur temps, ou grâce à leurs âmes aussi sensibles que des sismographes ultra-perfectionnés, sont visités avant les autres par les signes du futur» (pp. 279-80).
(10) «[…] notre vie, si nous la considérons comme un ensemble de possibilités, est magnifique, exubérante, supérieure à toutes celles que l’on a connues jusqu’ici dans l’histoire. Mais par le fait même que ses limites sont plus vastes, elle a débordé tous les cadres, tous les principes, normes et idéals légués par la tradition» (p. 119).
(11) «La caractéristique du moment, c’est que l’âme médiocre, se sachant médiocre, a la hardiesse d’affirmer les droits de la médiocrité et les impose partout» (p. 90, l’auteur souligne).
(12) «La force était autrefois l’ultima ratio. Assez sottement d’ailleurs, on a pris la coutume d’interpréter ironiquement cette formule qui exprime fort bien la soumission préalable de la force aux normes rationnelles. La civilisation n’est rien d’autre que la tentative de réduire la force à l’ultima ratio. Nous commençons à le voir clairement maintenant, parce que «l’action directe» consiste à pervertir l’ordre et à proclamer la violence comme «prima ratio», et même comme unique raison. C’est la norme qui propose l’annulation de toute norme, qui supprime tout intermédiaire entre nos projets et leur mise en pratique. C’est la Magna Carta de la barbarie» (p. 149).
(13) «La violence est devenue la rhétorique de notre temps. Les rhéteurs, les cerveaux vides s’en emparent. Quand une réalité a accompli son histoire, a fait naufrage, est morte, les vagues la rejettent sur les rivages de la rhétorique, où, cadavre, elle subsiste longuement. La rhétorique est le cimetière des réalités humaines; tout au moins son hôpital d’invalides. Le nom survit seul à la chose; et ce nom, bien qu’il ne soit qu’un nom, est en fin de compte un nom, c’est-à-dire qu’il conserve quelque reste de son pouvoir magique» (pp. 192-3).

lundi, 27 décembre 2010

?Existio una Konservative Revolution en Espana?

¿EXISTIÓ UNA KONSERVATIVE REVOLUTION EN ESPAÑA?
 
Ortega y Gasset y las generaciones de combate
Sebastian J. Lorenz
 
Si en algo están de acuerdo los cronistas que han escrito sobre la Konservative Revolution –como Mohler, Locchi, Steuckers, Pauwels o Romualdi, entre otros- es que aquel movimiento espiritual e intelectual manifestado a través de las ideas-imágenes (Leitbild) y expresado por el oxímoron “revolución - conservación” (fórmula poco afortunada pero con arraigo) no fue exclusivamente un fenómeno alemán, sino que también registrará diversos ritmos e impulsos –siempre de forma individual, nunca organizada- por todo el viejo continente europeo.
Así que, a poco que estemos dispuestos a escarbar en el frágil tejido europeo de entreguerras, siempre encontraremos algún nuevo autor que encaja con los parámetros generales que han sido descritos para los “revolucionario conservadores”: nunca llegará a ser como la lista de integrantes del movimiento alemán estudiada por Mohler, pero esta labor de investigación nos trasladaría a países como Francia, Italia, Bélgica, Holanda, Suecia, Rumanía e, incluso, Rusia.
En su famoso “manual” sobre la Konservative Revolution en Alemania (inédito en español), Armin Mohler avala la tesis según la cual la “revolución conservadora” no habría sido un movimiento exclusivamente alemán, sino un fenómeno político que abarca a toda Europa. En un breve recorrido por los países europeos apunta varios nombres (Dostoyevski, Sorel, Barrés, Pareto, Lawrence, por citar algunos de ellos). ¿Y en España? Al filósofo, político y escritor Miguel de Unamuno y, una generación después, a Ortega y Gasset. Unamuno se movía en un terreno ideológico que fue compartido, por ejemplo, por otros intelectuales de la época como Ganivet, Baroja, Azorín o Maeztu: el rechazo espiritual (irracionalista) de las corrientes materialistas decimonónicas, esto es, el nacionalismo centralizador e imperialista, el socialismo deshumanizante, la democracia, el liberalismo, el progresismo, el cientifismo y la industrialización.
Transversalizando las ideas y las imágenes de este grupo de pensadores, con la recepción global –pero nunca homogénea ni uniforme- de la filosofía nietzscheana, comprobamos cómo triunfa en todos ellos el recurso a una palangenesis de renacimiento o “regeneración española y europea” que tenía como precursor a Donoso Cortés y, posteriormente a esta generación, a Ortega y Gasset como pensador y propagador. Y precisamente por él comenzaremos este estudio, después de unas consideraciones generales para situacionar el contexto histórico y político del fenómeno “revolucionario-conservador” y “euro-regeneracionista” español.
Si hubo algo parecido en España a la Konservative Revolution alemana, este movimiento/pensamiento de lo ideo-imaginario” –por el valor otorgado a las imágenes- debió surgir necesariamente a partir de la crisis generacional de 1898. Pensemos que 1900 es el año de la muerte de Nietzsche y unos diez años antes de esta fecha es el momento que puede tomarse como punto de partida en la recepción de su pensamiento por una corriente filosófica espiritualista y culturalista que transversaliza toda Europa (también en 1900 se traduce el primer libro de Nietzsche al español). En palabras de Julián Marías, el mejor conocedor de la obra de Ortega, “una época intelectual de espléndida y admirable porosidad”.
No hay que esperar, pues, a 1918 –fin del primer acto de la guerra civil europea- como hace Armin Mohler, para encajarla en la catástrofe weimariana, ni tampoco a la implementación nietzscheana de Heidegger. Volviendo a España, los representantes más interesantes de esta corriente, como ya se podido intuir, son Unamuno, Baroja, y Maeztu, con la continuidad otorgada por Ortega y la radicalidad estética de Giménez Caballero.
El libro de Marcigiliano I Figli di Don Chisciotte realiza un aceptable estudio sobre las referencias ideológicas de la Revolución Conservadora española: de Ortega y Gasset, Menéndez Pelayo, Unamuno, junto a otros ideólogos más politizados como Giménez Caballero o Ledesma Ramos, o los historiadores Menéndez Pidal, Américo Castro y Sánchez Albornoz. En cualquier caso, los únicos estudios sobre la influencia europea en estos autores españoles apuntan, especialmente, al protagonismo, por ejemplo, de Maurras y Barrès, más que a los “revolucionario-conservadores” alemanes.
Y, desde luego, este “singular” conservadurismo revolucionario ibérico tendrá, como es lógico, unas notas definitorias que lo separan del resto de fenómenos europeos: la ausencia del sentimiento de catástrofe tras la primera guerra mundial (sustituido por el desastre de 1898 por la pérdida del imperio colonial tras la guerra contra los norteamericanos), la trascendencia otorgada al catolicismo tradicionalista, si bien en forma de agonismo como Unamuno o de agnosticismo como Ortega (frente al luteranismo, el paganismo o el retorno a la religión indoeuropea, incluso frente a ciertas desviaciones del misticismo y del esoterismo, tan extendido en centroeuropa) y, finalmente, el pan-hispanismo iberoamericano (junto al europeismo como retorno español al continente).
Resulta, por otra parte, muy significativo que Alain de Benoist , líder intelectual de la Nouvelle Droite francesa y asiduo visitante de los autores y lugares comunes de la Konservative Revolution alemana (efectuando una necesaria revisión, reinterpretación y actualización), no haya prestado especial atención al pensamiento revolucionario-conservador español , excepto –eso sí, en una posición relevante- a Ortega y Gasset, del que publicó la versión francesa de La rebelión de las masas, a Bosch Gimpera por sus estudios sobre El problema indoeuropeo, y a Donoso Cortés (Ensayo sobre el catolicismo, el liberalismo y el socialismo), seguramente por su crítica del liberalismo y la modernidad desde una contrarrevolucionaria perspectiva teológico-política y su interpretación europea efectuada por Carl Schmitt, cuya obra fue introducida en España por Eugenio D´Ors.
En opinión de Carlos Martínez-Cava, nuestra “generación del 98” fue una avanzada en el tiempo a lo que en la Europa de entreguerras, en el período 1919-1933, significaron las conocidas "Revoluciones Conservadoras" europeas en sus distintas y variadas manifestaciones culturales. Se pueden encontrar puntos en común, incluso de origen. Tanto en España, como en la “Revolución Conservadora” alemana, se parte de un desastre militar y de una situación sociopolítica interna caótica. Y en ambos casos, los regímenes y conflictos posteriores llegaron incluso a dar con la cárcel o muerte de sus componentes. Recordemos en España a Maeztu o a Machado, y en Alemania a Niekisch o Jünger.
Martínez-Cava formula un análisis comparativo entre la filosofía de la “generación del 98” y la RC alemana, afirmando que, del mismo modo que dentro de ambas corrientes no existió la homogeneidad, al existir diversas tendencias, la comparación entre ambas tampoco es unívoca, pero sí permite establecer puntos de conexión en común que las une para el proyecto colectivo de la resurrección de Europa como potencia y rectora de la civilización. A saber:
En primer lugar, el eterno retorno y el mito. En ambas corrientes se percibe la historia desde una perspectiva cíclica (Evola, Spengler) o esférica (Nietzsche, Jünger, Mohler), por oposición a la concepción lineal común propia del cristianismo y el liberalismo.
En segundo lugar, el nihilismo y la regeneración. Se tiene la consideración de vivir en un interregno, de que el viejo orden se ha hundido con todos sus caducos valores, pero los principios del nuevo todavía no son visibles y se hace necesaria una elaboración doctrinal que los ponga de relieve.
En tercer lugar, la creencia en el individuo, si bien como parte indisoluble de una comunidad popular y no en el sentido igualitario de la revolución francesa, que lleva a propugnar un sobrehumanismo aristocrático y una concepción jerárquica de la sociedad humana e, incluso, de las civilizaciones.
En cuarto lugar, la renovación religiosa. La “Revolución Conservadora” alemana tuvo un carácter marcadamente pagano (espiritualismo contra el igualitarismo cristiano). Esta religiosidad no fue ajena a España, como pueden ser los casos de Azorín y Baroja. Y de signo diferente, agónicamente católica, en los casos de Unamuno y Maeztu, o agnóstica en el de Ortega. En cualquier caso, representaban una “salida de la religión”, es decir, la incapacidad de las confesiones para estructurar la sociedad.
En quinto lugar, la lucha contra el decadente espíritu burgués. Las adversas condiciones bélicas, el frío mercantilismo y la gran corrupción administrativa provocaron, como reacción, el nacimiento de un espíritu aguerrido y combativo para barrer las caducas morales.
En sexto lugar, el comunitarismo orgánico. Se buscaba una referencia en la historia popular para dar vida a nuevas formas de convivencia. Esa comunidad del pueblo no obedecería a principios constitucionales clásicos, ni mecanicistas, ni de competitividad, sino a leyes orgánicas naturales.
En séptimo lugar, la búsqueda de nuevas formas de Estado. Alemanes y españoles, igual que el resto de europeos, con diferencias en el tiempo, rechazaron las formas políticas al uso y propugnaron un decisionismo y el establecimiento de la soberanía económica en grandes espacios autocentrados o autárquicos como garantía de la efectiva libertad nacional.
Y en último lugar, el reencuentro con un europeísmo enraizado en las tradiciones de nuestros antepasados (los indoeuropeos), no enfrentado a los nacionalismos de los países históricos ni a las regiones étnicas, y planteado como una aspiración ideal de convivencia futura, con independencia de la forma institucional que pudiese adquirir.

vendredi, 24 décembre 2010

Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

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Kreuzweiser Austausch
Die ungewöhnliche Beziehung von Ernst Jünger und Erich Mühsam

Von Lars-Broder Keil (Friedrichshagen)

Ex: http://www.friedrichshagener-dichterkreis.de/


"Mühsam lernte ich bei Ernst Niekisch kennen, den ich häufig aufsuchte. Ich glaube, auch Toller war an jenem Abend dabei. Sie kannten sich aus der Zeit der Münchener Räterepublik, mit der sich die Linke eine ähnliche Absurdität wie später die Rechte mit dem Kapp-Putsch leistete. Wir kamen in ein angeregtes Gespräch, Mühsam begleitete mich auf dem Heimwege. Er war Bohemien vom Schlage Peter Hilles, weltfremder Anarchist, verworren, kindlich-gutmütig. (...) Er redete in flatterndem Mantel wild, beinahe schreiend auf mich ein, so daß sich die Passanten nach der seltsamen Erscheinung umwandten, die an einen großen unbeholfenen Vogel erinnerte. Wir tauschten einige Briefe, bis kurz vor seiner Verhaftung; schreckliche Gerüchte sickerten bald über sein Schicksal durch." (1)
Diese Schilderung seiner ersten Begegnung mit Erich Mühsam (1878-1934), die um 1930 herum stattfand, hielt Ernst Jünger (1895-1998) am 24. August 1945 in seinem Tagebuch fest. Glaubt man Jüngers Eintrag, blieb es nicht bei dieser Begegnung. Es ist eine Beziehung, die ungewöhnlich, fast unwahrscheinlich anmutet: der linke Anarchist Erich Mühsam und der bis heute umstrittene konserverative Schriftsteller und Käferforscher Ernst Jünger.

Schwierige Spurensuche

Erich Mühsam wurde 1878 in Berlin geboren, wuchs aber in Lübeck auf. Nachdem er dort eine Glosse über den Direktor seiner Schule in einer SPD-Zeitung veröffentlicht hatte, flog er wegen "sozialistischer Umtriebe" von der Schule und begann eine Apothekerlehre. 1900 zog er nach Berlin, fand Anschluss an die Neue Gemeinschaft der Gebrüder Heinrich und Julius Hart sowie an die Literatur-Bohemeszene und freundete sich mit Gustav Landauer an. In Friedrichshagen arbeitete er ab 1902 für die anarchistische Zeitung "Armer Teufel", bis er 1904 zu seinen Wanderjahren durch Europa aufbrach. Diese führten ihn schließlich nach München, wo sich Mühsam ab 1909 niederließ. 1918 beteiligte er sich führend an der Gründung der Münchener Räterepublik und musste nach deren Niederschlagung ins Gefängnis, wo er bis Ende 1924 einsaß. Anschließend zog Mühsam wieder nach Berlin und gab dort die Monatzeitschrift "Fanal" heraus. 1933 von der SA verhaftet, wurde er nach schweren Misshandlungen 1934 im KZ Oranienburg ermordet.
Ernst Jünger wurde 1895 in Heidelberg geboren. Wie ein Großteil seiner Generation meldete er sich 1914 als Kriegsfreiwilliger. Er wurde mehrfach verwundet und ausgezeichnet. Mehr als das prägte ihn die Materialschlacht an der Front, die er in Büchern, wie "In Stahlgewittern" (1920), verarbeitete. Auffallend dabei: zum einen die nüchternen Schilderungen des Grauens, andererseits die Begeisterung für den militärischen Kampf. Dieser Stil sowie die Mitarbeit in nationalistischen und militanten Gruppierungen wie Zeitschriften brachten ihm den Ruf des demokratiefeindlichen Reaktionärs und Kriegsverherrlichers ein. Dabei war auch der junge Jünger, wie viele seiner Generation, jemand, der sich erst durch den Krieg verändert hatte und der auch ein Suchender war: "Mein Weltbild besitzt durchaus nicht mehr jene Sicherheit, wie sollte das auch möglich sein bei der Unsicherheit, die uns seit Jahren umgibt", schrieb er über seine Kriegserlebnisse im Buch "Der Kampf als inneres Erlebnis" (1922). Mitte der 20er-Jahre begann er Philosophie und Zoologie zu studieren, brach das Studium aber 1926 ab und lebte seitdem als Schriftsteller - unterbrochen durch seinen Militäreinsatz im zweiten Weltkrieg, den er unter anderem im Stab des Militärbefehlshabers in Paris verbrachte. 1944, nach dem missglückten Attentat auf Hitler, wurde Jünger aus der Armee entlassen. Der Autor zahlreicher Bücher, Tagebücher und Essays starb 1998 im Alter von 103 Jahren.
Leider sind die Briefe Mühsams an Jünger vernichtet - unter welchen Bedingungen dies geschah, soll zu einem späteren Zeitpunkt beschrieben werden. Daher lässt sich auch nichts über den Inhalt sagen. Neben dem etwas ausführlicheren Eintrag von 1945 tauchen nur wenige kurze Hinweise auf Mühsam in Jüngers Tagebüchern auf. Im Eintrag vom 10. September 1943 schrieb er über Mühsam, dass dieser "eine kindliche Neigung zu mir gefasst hatte" und dass man ihn "auf so schauerliche Weise ermordete". Am Ende findet sich die Einschätzung: "Er war einer der besten und gutmütigsten Menschen, denen ich begegnet bin." (2). Kurz erwähnte Jünger ihn noch am 20. Oktober 1972 und 20. Mai 1980 (3). Am 19. November 1989 notierte Jünger: "Hans Jürgen Frh. von der Wense (1894-1955). Ich lese in seinen Tagebüchern Notizen über die Novemberrevolution von 1918 und deren Folgen bis zur Niederschlagung der Münchner Räterepublik; sie erinnern mich an Gespräche mit Beteiligten wie Niekisch, Toller und Mühsam." (4)
Mühsam wiederum erwähnte weder in seinen Erinnerungen noch in Briefen seine Beziehung zu Jünger. Von der Bekanntschaft kündet lediglich der Eintrag im Notizkalender von 1930: "15.1. Begegnung mit Ernst Jünger bei Rudolf Schlichter" (5). Das Aussparen der Beziehung zu Jünger mag daran liegen, dass sie nur lose war und er ihr keine so große Bedeutung beigemesssen hat - was angesichts der verschiedenen Weltbilder der beiden nicht verwunderlich sein dürfte. Doch offenbar hinderte sie das nicht, Gespräche zu führen. Mehr Aufschluss könnte Mühsams Nachlass geben, doch der ist zu einem großen Teil zerstört. Chris Hirte, ein Mühsam-Biograf und -kenner, wundert sich über die Beziehung nicht. Zum einen habe sich Mühsam in seiner Zeitschrift "Fanal" ausführlich mit Kriegsliteratur befasst, und Jünger war einer der wichtigsten Vertreter. Zum anderen habe Mühsam viel Wert auf Kontakte quer durch alle Gruppierungen gelegt und mit diesen ausführlich kommuniziert, besonders gern mit prominenten Zeitgenossen, zu denen Jünger damals schon gehörte. Unter Mühsams Bekannten stammten laut Hirte viele aus dem bürgerlichen Lager. Ideologische Barriere gab es für den Anarchisten Mühsam hier offenbar nicht.
Auffallend an Jüngers knappen Überlieferungen der Kontakte ist der wohlwollende Ton, mit dem er über den "Friedrichshagener" Mühsam spricht. Daher scheint es interessant, das Klima zu beschreiben, das damals Treffen zwischen linken und rechten Intellektuellen möglich machte. Verzichtet wird, vor allem aus Platzgründen, auf eine Analyse der relevanten Werke Jüngers, die aber genannt werden sowie auf eine tiefere Analyse der nationalistischen Strömungen, die in der Beziehung eine Rolle spielen. Zu diesen gibt es eine erschöpfende Literatur.

Niekisch als Bindeglied der Beziehung

Wie in Jüngers Tagebuch angedeutet, war Ernst Niekisch (1889-1967) das Bindeglied in dieser ungewöhnlichen Beziehung. Niekisch, Sohn eines Feilenhauermeisters und in Schlesien geboren, las in seiner Jugendzeit neben Klassikern auch die Werke der Moderne von Gerhart Hauptmann, Henrik Ibsen, Frank Wedekind und Max Halbe, die zum Teil prägend für die "Friedrichshagener" waren. Er lernte Erich Mühsam zusammen mit Gustav Landauer 1918 während der Zeit der Räterepublik in München kennen, an der sich alle drei aktiv mitwirkten. Niekisch beschreibt Mühsam in dieser Zeit als sprudelnden, witzigen Geist, "ein guter Mensch, aber so ausgesprochen literarischer Bohemien, daß sich niemand ihn in einer würdigen Amtsposition vorstellen konnte" (6). Letztere Bemerkung zielt auf einen Versuch von Mühsam, sich selber als Volksbeauftragter für das Auswärtige im Kabinett der Räterepublik vorzuschlagen. Landauer war für Niekisch eine "geistig überlegene Persönlichkeit" (7), ein außerordentlicher und gedankenvoller Redner (8).
Die Zusammenarbeit lockerte sich mit dem Rücktritt von Niekisch vom Posten des Präsidenten des Zentralrats der Arbeiter-, Bauern- und Soldatenräte Bayerns. Trotzdem unterzeichnete er einen Aufruf zugunsten des seit 1919 inhaftierten Mühsam, der ärztliche Hilfe brauchte. Kurze Zeit später trafen sich beide wieder - in der Festungshaft. Dort zettelte Mühsam unter den Häftlingen einen Streik an, bei dem Essenreste auf die Gänge geworfen wurden. Niekisch, der angesichts der Lebensmittelknappheit dieser Zeit eine "schlechte Presse" für diese Aktion befürchtete, brach den Streik und säuberte am dritten Tag mit Hilfe anderer Häftlinge die Flure (9). Mühsam zeigte sich verbittert über die Streikbrecher und nannte Niekisch und dessen Umfeld in seinen Tagebüchern verächtlich die "Intellektuellen" (10).

Niekisch trat nach seiner Entlassung in den Schuldienst ein, war Landtagsabgeordneter der USPD und folgte im November 1922 dem Ruf in den Hauptvorstand des Deutschen Textilarbeiterverbandes nach Berlin, schied aber 1926 im Streit mit der SPD aus dem gewerkschaftlichen Verband aus und ging nach Dresden. Dort schloss er sich der Alten Sozialdemokratischen Partei (ASP) an und gab die Zeitschrift "Widerstand. Blätter für sozialistische und nationalrevolutionäre Politik" heraus.
Über diese Herausgeberschaft und die ASP bekam er zunehmend Kontakt zu bündischen Kreisen, zu reaktionären Gruppierungen, beispielsweise zum Jungdeutschen Orden, zu Konservativen, wie den ehemaligen Korpsstudenten Friedrich Hielscher, der zum Thema "Nietzsche und der Rechtsgedanke" promoviert hatte und sich später diffusen sozialrevolutionär-nationalistischen Tendenzen näherte, sowie zu bürgerlichen Intellektuellen, etwa zu Friedrich Georg Jünger, ein Bruder von Ernst Jünger (11).
Auf die Jünger-Brüder war Niekisch durch den Philosophen Alfred Baeumler gestoßen, der zugleich Mitglied des Kampfbundes für deutsche Kultur von Alfred Rosenberg war. Baeumler lobte Ernst Jünger als einen Mann, "der die technischen Tendenzen der Zeit in vollem Umfange begriffen habe" und nicht mehr in rückständiger Bürgerlichkeit stecke (12). Dies war wohl der Anlass, Jünger 1926 zur Mitarbeit am "Widerstand" aufzufordern, wie aus einem Brief Ernst Jüngers an seinen Bruder hervorgeht (13). 1927 erschien der erste Artikel.
Im Herbst des gleichen Jahres, so berichtet Niekisch in seinen Erinnerungen, sei er mit Baeumler nach Berlin gereist, der dann einen Besuch bei Jünger angeregt habe. Jünger habe beide freundlich in seiner Wohnung in der Nähe der Warschauer Brücke empfangen. "Wir tranken Kaffee und unterhielten uns über politische Vorgänge jener Tage", erinnert sich Niekisch (14).

Allerdings scheint er sich im Jahr geirrt zu haben, da Baeumler die Jüngers erst 1928 kennenlernte und auch die Briefe erst aus diesem Jahr stammen (15). Ob nun 1927 oder 1928, nach dem ersten Treffen entwickelte sich jedenfalls ein, laut Niekisch, freundschaftlicher Verkehr, gelegentlich schrieb Jünger für den "Widerstand" Aufsätze, und als Niekisch wieder nach Berlin zog, trafen sich beide, etwa bei einer Besprechung des Kreises "Neuer Nationalisten" mit dem Verleger Ernst Rowohlt oder bei Niekisch zu Hause. Bei einem dieser Besuche kam es dann zum Kontakt zwischen Mühsam und Jünger.
Jünger in Berlin

Rund sechs Jahre, von 1927 bis 1933, lebte Ernst Jünger in Berlin. Nach seinen Büchern über den Ersten Weltkrieg war er zum Hoffnungsträger und Wortführer der Gegner der Weimarer Republik im rechten Spektrum geworden.
Die unter dem Begriff "Neuer Nationalismus" zusammengefassten Gruppierungen bekannten sich einmütig zur Nation und einem wehrhaften Staat. Doch Jünger begann schnell, sich von den radikal-militanten Kreisen zu lösen. Wie schon die jungen Intellektuellen zur Jahrhundertwende zog Jünger das Geschehen der pulsierenden Hauptstadt an. Jünger versuchte sich in bohemhaftem Lebensstil, wohnte in möblierten Zimmern, wanderte nachts durch die Straßen, hielt seine Beobachtungen fest, nahm gelegentlich an Trinkfesten teil. Er suchte Kontakt zu Vertretern aller Couleur, zu Nationalisten und Rechten, beispielsweise zu Friedrich Hielscher und Otto Strasser, zu Linken, wie Bertolt Brecht, Erich Mühsam, Ernst Toller und zu Rudolf Schlichter, der Jünger 1929 und noch einmal 1937 porträtierte (16).
Der Maler, Zeichner und Schriftsteller Rudolf Schlichter (1890-1955), bei dem Mühsam laut seinem Notizkalender auch Jünger traf, erregte Anfang der 20er-Jahre mit seiner Plastik des an der Decke schwebenden "Preußischen Erzengels" in Uniform und Schweinskopf Aufsehen. Etwa 1927 wurde der kommunistische Künstler als genauer Zeichner der Berliner Halbwelt bekannt, war unter anderem mit George Grosz und Bert Brecht befreundet. Durch die Begegnung mit seiner späteren Frau Speedy wandte sich Schlichter jedoch dem Katholizismus und Nationalismus zu. In dieser Phase lernte er auch Ernst Jünger kennen, der den Maler sehr schätzte. Die erste Begegnung fand wahrscheinlich beim Verleger Rowohlt statt, der, wie Jünger notierte, "sich ein Vergnügen daraus machte, pyrotechnische Mischungen auszutüfteln, besonders an seinen Geburtstagen" (17).

Links-Rechts-Dialoge

Für die Weimarer Jahre war ein Wirrwarr von rechten und linken Gruppen, Bünden, intellektuellen Zirkeln und Sammlungsbewegungen kennzeichnend, die weniger in festen Organisationsformen oder gar Ortsverbänden agierten. Meist handelte es sich um Mitarbeiter einer Zeitschrift, die sich um den Herausgebe scharrten. Die Akteure waren oft junge, unzufriedene Kriegsteilnehmer, die nach einer Neuorientierung, einem "neuen politischen Leitbild eines nationalen Selbstbewusstseins" suchten - und zwar jenseits vom Parteiengezänk. (18). Die Frontgeneration der 1890-1905 Geborenen kritisierte und bekämpfte die Ideen des Liberalismus und des Parteiensystems. Sie stellten die Bindung an eine fast mystisch anmutende Nation in den Mittelpunkt, grenzten sich aber vom Nationenbegriff patriotischer Prägung ab.
Was bewegte die "rechten" Strömungen, die unter Begriffen wie Nationalrevolutionäre zusammengefasst wurden, zum gemeinsamen Vorgehen? Jürgen Danyel nannte auf einer Tagung der Evangelischen Akademie Berlin 1990 über den so genannten "Gegner"-Kreis drei wesentliche Handlungsanreize: Zum einen werden die Aktivitäten als Reaktion auf die Modernisierungprozesse der 20er-Jahre verstanden und auf die Erkenntnis, Anschluss an politische Massenbewegungen gewinnnen zu müssen. Allerdings waren die Vertreter des Nationalismus zumeist Einzelgänger und stolz auf ihre Isolierung. Geradezu mit Verachtung wiesen sie die Möglichkeit ab, sich von den großen politischen Strömungen tragen zu lassen. Sie sahen sich in Opposition, als Individualisten und auf dem Weg, für sich den Begriff Konservatismus neu zu definieren. Zweitens prägten die Strömungen das "Gemeinschaftserlebnis Krieg" und die revolutionären Nachkriegsauseinandersetzungen sowie das "Unvermögen zur sozialen Integration in eine ihnen fremde bürgerliche Welt". Drittens schließlich führte die nationale und soziale Problemlage Deutschlands nach 1918 zu einer Politisierung, verbunden mit dem Aufbegehren gegen die eigene bürgerliche Herkunft - gerade im letzten Punkt finden sich verblüffende Parallelen zu den "Friedrichshagener Dichtern" und den Motiven ihres Handelns um die Jahrhundertwende.
Die nationale Problematik bildete das Dach der oft gegensätzlichen Strömungen. Betont wurde der Charakter der "Bewegung", favorisiert eine "Verbindung von Nationalismus und Sozialismus", in der die Arbeiterschaft eine historische Trumpfkarte im Rahmen einer umfassenden Gesellschaftsveränderung werden sollte. "Rechte" wie "Linke" fanden auch eine gemeiname Basis in der Ablehnung des westlichen Imperialismus, dessen Hauptsymbol für sie der Versailler Vertrag war (19). Im Unterschied zum Marxismus bekannten sich die Nationalrevolutionäre, und besonders deren nationalbolschewistische Strömung, zu Nation und Staat (20).
In der außenpolitischen Betrachtung sympathisierten die Strömungen mit der nicht am Versailler Vertragswerk beteiligten Sowjetunion - mit einer häufig diffusen Zuneigung und Verklärung. So nutzte auch Jünger die Einladungen der "Gesellschaft zum Studium der russischen Planwirtschaft". Im Ergebnis entstand seine 1932 erscheinende theoretische Schrift "Der Arbeiter", die Unverständnis im rechten Lager und heftige Kontroversen auslöste.
Wechsel zwischen den Lagern und Kontakte waren nicht selten. In Gesprächszirkeln aller Art trafen sich offizielle und oppositionelle Kommunisten, sozialistische und konservative Intellektuelle, parteitreue bis parteifeindliche Nationalsozialisten. Bei allen Unterschieden, ja Hass zwischen den Flügeln, zog die gemeinsame Radikalität des Gefühls und des Denkens an.
Vor diesem Hintergrund sind auch die Kontakte zwischen Jünger und Mühsam zu sehen. Nach Ansicht des Jünger-Biographen Heimo Schwilk fühlte sich der nationalrevolutionäre Autor zu Personen hingezogen, die die herrschende Verhältnisse in Frage stellten, zu einem Radikalismus der Tat neigten, um aus der beengten Sphäre des Bürgerlichen auszubrechen. Auch Jünger verspürte früh diesen Drang, meldete sich als Jugendlicher in der Fremdenlegion, "ein früher, instiktiver Protest gegen die Mechanik der Zeit", nannte er diesen Schritt später. Eine mehr selbst-analytische Verarbeitung des ersten Ausbrechens lag jahrelang als unveröffentlichtes Manuskript in seinem Schreibtisch. Es trug den bezeichnenden Titel "Die letzte sentimentale Reise oder die Schule der Anarchie" (21) und wurde 1936 als "Afrikanische Spiele" veröffentlicht.
Mühsam wiederum suchte in seiner Vorstellung, die Regierung durch eine Revolution abzulösen, nach tatbereiten Leuten, um sie gegen die Weimarer Republik zu mobilisieren. Die meinte er offenbar auch unter den Vertretern der Nationalrevolutionäre zu finden, deren Wille zu Aktionen ihm näher lag, als das abwartende Verhalten der Funktionäre von SPD und KPD, die auf Parlamentarismus setzten, schätzt Mühsam-Forscher Hirte ein. Jünger zählte sich selbst zu den Nationalrevolutionären, bezeichnete sich öffentlich aber erst Anfang der 80er-Jahre so.
Das mag daran liegen, dass Jünger, der sich auf besondere Weise als elitärer Einzelkämpfer verstand, Distanz zu den Gruppen gewahrt hatte, weil er Zuordnung als Vereinnahmung verstand. Bereits als der "Arbeiter" erschien, hatte er sich aus dem aktiven Geschehen zurückgezogen, "in die Innerlichkeit", wie Niekisch das bezeichnete.
Trotzdem hielt er weiter Kontakt. Als das NS-Regime an die Macht kam, nahm Jünger beispielsweise Niekisch kurzzeitig bei sich auf und kümmerte sich nach dessen Verhaftung um die Niekisch-Familie.

Vernichtung der Mühsam-Briefe

Die Beschreibung der Kontakte zwischen Ernst Jünger und Ernst Niekisch hätte ergiebiger ausfallen können, wenn Jünger nicht so vorsichtig gewesen wäre. Als die Nationalsozialisten die Macht in Deutschland ergriffen und ihre Gegner zu verhaften begannen, vernichtete er in einer hektischen Aktion einen Teil seiner umfangreichen Briefsammlung und Tagebuchaufzeichnungen. Darunter auch die wenigen Briefe von Mühsam, die laut Jünger "harmlos waren wie der Mann selbst" und später die Briefe von Ernst Niekisch, bei dem Jünger Mühsam kennengelernt hatte. Mehrfach bedauerte er die Lücken, "die vor allem dadurch entstanden sind, daß ich in Anfällen von Nervosität Papiere verbrannt habe". Aber Jünger wusste um die Sprengwirkung, wenn sie bei ihm gefunden worden wären. "Wenn meine Bekannten durch mich Schwierigkeiten hatten, so galt das auch umgekehrt, es fand kreuzweis ein Austausch statt. Der Umgang mit Niekisch, Mühsam, Otto Strasser, Hofacker, Schulenburg, Heinrich von Stülpnagel und anderen warf ein ungünstiges Licht auf mich", schrieb er rückblickend in seinem Tagebuch am 24. August 1945. Wie recht er mit dieser Annahme hatte, musste Jünger kurze Zeit nach dem Vernichten der Briefe erfahren. Eines Abends, er saß in seiner Steglitzer Wohnung und las Beardsleys "Venus und Tannhäuser", klingelte es an der Tür. Zwei Gestapo-Beamte traten ein, überhörten Jüngers Frage nach den Ausweisen und begannen in den Zimmern nach Waffen und verbotenen Papieren zu wühlen. Jüngers Buch "Der Arbeiter" im Regal schien ihr Misstrauen zu fördern. Dann kamen sie zu ihrem Anliegen und fragten nach den Briefen von Erich Mühsam. Jünger reichte ihnen seine Briefmappe "H-M", in denen die Briefe Mühsams fehlten, aber nicht die von Hitler und Hess, und hielt die Reaktion der Beamten in seinem Tagebuch fest: "Sie begannen zu blättern, stießen dabei gleich auf einige Namen, die hoch im Kurs standen, und brachen ihr Unternehmen ab." (22)

Im nächsten Heft: Jünger und der Individualanarchismus von John Henry Mackay und Max Stirner

Quellen:

  1. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg, Jahre der Okkupation, In: Strahlungen II., Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1979, S. 516 f.)
  2. Ernst Jünger: Das zweite Pariser Tagebuch, In: Strahlungen II..., S. 146
  3. Ernst Jünger: Siebzig verweht II, Verlag Klett-Cotta, Stuttgart, 1981, S. 97 und S. 610ff.
  4. Ernst Jünger: Siebzig Verweht IV, Verlag, Stuttgart, 1981, S. 383
  5. Chris Hirte: "Erich Mühsam", Verlag Neues Leben Berlin, 1985, S. 419
  6. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, Kiepenheuer & Witsch, Köln-Berlin, S. 43
  7. ebenda, S.68
  8. ebenda, S.78
  9. ebenda, S.96
  10. Erich Mühsam: Tagebücher 1910-1924, Deutscher Taschenbuch Verlag, München, 1994, S.240f.
  11. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Rowohlt Verlag, S.41
  12. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben, S. 187
  13. Friedrich Georg Jünger: Briefwechsel mit Rudolf Schlichter, Ernst Niekisch und Gerhard Nebel, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 2001, S. 59
  14. Ernst Niekisch: Gewagtes Leben..., S.187
  15. F.G. Jünger, S.59f.
  16. Horst Mühleisen: Ernst Jünger in Berlin, Frankfurter Buntbücher 20, S. 5
  17. Ernst Jünger und Rudolf Schlichter, Briefe 1935-1955, Klett-Cotta Verlag, Stuttgart, 1997, S. 307f.
  18. Jürgen Danyel: Alternativen nationalen Denkens vor 1933, In: Der "Gegner"-Kreis im Jahre 1992/33, Evangelische Akademie Berlin, 1990, S. 76
  19. ebenda, S.69
  20. Das Projekt Ernst Jünger, In: Forum Wissenschaft, I/95, S. I ff.
  21. Ernst Jünger in Selbstzeugnissen..., S. 12
  22. Ernst Jünger: Die Hütte im Weinberg..., S. 516 f.

 

dimanche, 19 décembre 2010

The Return of Carl Schmitt

The Return of Carl Schmitt

 Scott Horton

 

"Woe unto him who has no enemy, for at the Last Judgment I shall be his enemy."
- Carl Schmitt, Ex Captivitate Salus (1950)

 

Schmitt_nomos_de_la_terre-23a63.jpgA recent study points to 108 deaths in detention in the War on Terror, with a substantial part clearly linked to the Bush Administration’s controversial new coercive interrogation practices. Some of the most egregious cases involve the CIA. In this week’s New Yorker, Jane Mayer takes a close look at one case – that of Manadel al-Jamadi. Approximately two years ago, Jamadi died at the infamous Abu Ghraib prison near Baghdad. His death was quickly ruled a homicide, a CIA investigation found clear indicia of criminal wrongdoing, and with that the matter was placed in the hands of Paul McNulty – the U.S. Attorney for the Eastern District of Virginia and now the Bush Administration’s new nominee to serve as Deputy Attorney General. Since that time, from all appearances nothing has been done – the file has languished “in a Justice Department drawer,” in the words of one of Mayer’s informants.

Mayer, whose earlier writings have greatly contributed to the public understanding of the detainee abuse scandal, astutely recognizes the wide-ranging significance of the case. Justice in a homicide case is important enough, but this case raises another and potentially far more troublesome question: Has the Department of Justice been corrupted by its “torture memoranda”? Would a prosecution expose indelible links between the crime and the highest echelons of the Department of Justice? The question is not far-fetched. Indeed, its potential to rock the Bush Administration dwarfs that of the Plamegate scandal. As Marty Lederman established in a lengthy series of posts, the “torture memoranda” served a concrete double function: they overcame Agency objections that certain interrogation techniques violated the law (by furnishing an Attorney General opinion that they were lawful), and they offered effective impunity to CIA agents who uses these techniques. I caution that this is the function they were intended to serve. Whether memoranda of the Office of Legal Counsel can actually shield those who rely on them from prosecution is doubtful.

Let us assume that the techniques employed on Jamadi – including the likely fatal “Palestinian hanging” approach – were within the scope of the torture memoranda. Were charges to be brought against the agent who had custody of Jamadi and used the fatal technique, he would certainly plead the torture memoranda as an affirmative defense. Confronted with such claims, a truly independent prosecutor would have to consider the possibility that the authors of these memoranda counseled the use of lethal and unlawful techniques, and therefore face criminal culpability themselves. That, after all, is the teaching of United States v. Altstötter, the Nuremberg case brought against German Justice Department lawyers whose memoranda crafted the basis for implementation of the infamous “Night and Fog Decree.” Who can imagine Paul McNulty, now nominated to serve as Alberto Gonzales’ deputy, undertaking such an investigation of his boss? Hence, McNulty’s dilemma is understandable, but his failure to act should not be lightly dismissed.

Mayer’s article raises fair and compelling questions about McNulty’s handling of the Jamadi homicide case – and about the role of the Department of Justice in the investigation of detainee homicides generally.

But Mayer’s article is significant for another reason. It sheds new light on one of two of the “torture memoranda” which is not yet in the public domain, but has long been viewed as critical to understanding the inhumane practices that became commonplace in Iraq beginning in the fall of 2003.



A March [14], 2003, classified memo was “breathtaking,” the same source said. The document dismissed virtually all national and international laws regulating the treatment of prisoners, including war-crimes and assault statutes, and it was radical in its view that in wartime the President can fight enemies by whatever means he sees fit. According to the memo, Congress has no constitutional right to interfere with the President in his role as Commander-in-Chief, including making laws that limit the ways in which prisoners may be interrogated. Another classified Justice Department memo, issued in August, 2002, is said to authorize numerous “enhanced” interrogation techniques for the C.I.A. These two memos sanction such extreme measures that, even if the agency wanted to discipline or prosecute agents who stray beyond its own comfort level, the legal tools to do so may no longer exist. Like the torture memo, these documents are believed to have been signed by Jay Bybee, the former head of the Office of Legal Counsel, but written by a Justice Department lawyer, John Yoo, who is now a professor of law at Berkeley.



As has been noted in this space before, the March 14, 2003 Yoo memorandum has assumed a “Rosetta Stone” quality. It was transmitted to the Department of Defense as advice at a critical juncture – as the Iraq War moved off the drawing boards and into reality, and questions were repeatedly raised about how the Geneva Conventions were to be applied. But that's not all. Mayer's article now suggests the existence of other advice which explicitly addressed the situation in Iraq:

By the summer of 2003, the insurgency against the U.S. occupation of Iraq had grown into a confounding and lethal insurrection, and the Pentagon and the White House were pressing C.I.A. agents and members of the Special Forces to get the kind of intelligence needed to crush it. On orders from Secretary of Defense Donald Rumsfeld, General Geoffrey Miller, who had overseen coercive interrogations of terrorist suspects at Guantánamo, imposed similar methods at Abu Ghraib. In October of that year, however—a month before Jamadi’s death—the Justice Department’s Office of Legal Counsel issued an opinion stating that Iraqi insurgents were covered by the Geneva Conventions, which require the humane treatment of prisoners and forbid coercive interrogations. The ruling reversed an earlier interpretation, which had concluded, erroneously, that Iraqi insurgents were not protected by international law.



SCHMITT_HamletHecuba_MED.gifDocuments which have circulated in connection with the Fay/Jones and Taguba Reports made clear that following the issuance of high-level legal advice outside normal Department of Defense channels, command authorities in Iraq no longer considered the Geneva Conventions to restrain them in their handling of detainees. Internal email traffic among military intelligence units is consistent: Once you label the insurgent detainees as “terrorists,” “they have no rights, Geneva or otherwise.” It seems highly improbable that officers carefully trained in the Geneva rules would suddenly discard them on their own initiative. To the contrary, it is reasonably clear that instructions to that effect were transmitted from a very high source. The Yoo memoranda are critical to understanding what happened, and the March 14, 2003 combined with the initial OLC advice concerning treatment of insurgents in Iraq are likely the most significant pieces of the puzzle not yet in place.

But where exactly did Yoo come up with the analysis that led to the purported conclusions that the Executive was not restrained by the Geneva Conventions and similar international instruments in its conduct of the war in Iraq? Yoo’s public arguments and statements suggest the strong influence of one thinker: Carl Schmitt.

The Friend/Foe Paradigm
Perhaps the most significant German international law scholar of the era between the wars, Schmitt was obsessed with what he viewed as the inherent weakness of liberal democracy. He considered liberalism, particularly as manifested in the Weimar Constitution, to be inadequate to the task of protecting state and society menaced by the great evil of Communism. This led him to ridicule international humanitarian law in a tone and with words almost identical to those recently employed by Yoo and several of his colleagues.


Beyond this, Yoo’s prescription for solving the “dilemma” is also taken straight from the Schmittian playbook. According to Schmitt, the norms of international law respecting armed conflict reflect the romantic illusions of an age of chivalry. They are “unrealistic” as applied to modern ideological warfare against an enemy not constrained by notions of a nation-state, adopting terrorist methods and fighting with irregular formations that hardly equate to traditional armies. (Schmitt is, of course, concerned with the Soviet Union here; he appears prepared to accept that the Geneva and Hague rules would apply on the Western Front in dealing with countries such as Britain and the United States). For Schmitt, the key to successful prosecution of warfare against such a foe is demonization. The enemy must be seen as absolute. He must be stripped of all legal rights, of whatever nature. The Executive must be free to use whatever tools he can find to fight and vanquish this foe. And conversely, the power to prosecute the war must be vested without reservation in the Executive – in the words of Reich Ministerial Director Franz Schlegelberger (eerily echoed in a brief submission by Bush Administration Solicitor General Paul D. Clement), “in time of war, the Executive is constituted the sole leader, sole legislator, sole judge.” (I take the liberty of substituting Yoo’s word, Executive; for Schmitt or Schlegelberger, the word would, of course, have been Führer). In Schmitt’s classic formulation: “a total war calls for a total enemy.” This is not to say that in Schmitt’s view the enemy was somehow “morally evil or aesthetically unpleasing;” it sufficed that he was “the other, the outsider, something different and alien.” These thoughts are developed throughout Schmitt’s work, but particularly in Der Begriff des Politischen (1927), Frieden oder Pazifismus (1933) and Totaler Feind, totaler Krieg, totaler Staat (1937).

A Practical Guide to Evasion of the Geneva Conventions
Given this philosophical predisposition, how was a lawyer then to evade the application of the Geneva and Hague Conventions? Here an answer can be drawn not from Schmitt’s academic works, but from a series of determinations by the German General Staff which quite transparently reflected the influence of the then-Prussian State Councilor Carl Schmitt. A careful review of the original materials shows that the following rationales were advanced for decisions not to apply or to restrict the application of the Geneva Conventions of 1929 and the Hague Convention of 1907 during the Second World War:




(1) Particularly on the Eastern Front, the conflict was a nonconventional sort of warfare being waged against a “barbaric” enemy which engaged in “terrorist” practices, and which itself did not observe the law of armed conflict.
(2) Individual combatants who engaged in “terrorist” practices, or who fought in military formations engaged in such practices, were not entitled to protections under international humanitarian law, and the adjudicatory provisions of the Geneva Conventions could therefore be avoided together with the substantive protections.
(3) The Geneva and Hague Conventions were “obsolete” and ill-suited to the sort of ideologically driven warfare in which the Nazis were engaged on the Eastern Front, though they might have limited application with respect to the Western Allies.
(4) Application of the Geneva Conventions was not in the enlightened self-interest of Germany because its enemies would not reciprocate such conduct by treating German prisoners in a humane fashion.
(5) Construction of international law should be driven in the first instance by a clear understanding of the national interest as determined by the executive. To this end niggling, hypertechnical interpretations of the Conventions that disregarded the plain text, international practice and even Germany’s prior practice in order to justify their nonapplication were entirely appropriate.
(6) In any event, the rules of international law were subordinated to the military interests of the German state and to the law as determined and stated by the German Führer.


The similarity between these rationalizations and those offered by John Yoo in his hitherto published Justice Department memoranda and books and articles is staggering. It is of course possible that John Yoo came upon all of this on his own, like a scholar laboring in some parallel universe unaware of the work of others. Possible. But not probable.

It is more likely that Yoo’s work is a faithful, through crude and occasionally flawed interpretation of Schmitt. I say "crude" principally because Schmitt expresses from the outset the severest moral reservations about his concept of "demonization." It is, he fears, subject to "high political manipulation" which "must at all costs be avoided." The use of this technique, he writes, may only be available when "the survival of the people is at stake." Der Begriff des Politischen, pp. 20-33. Yoo expresses no comparable hesitation, preferring simply to place all confidence in the Executive, and justifying this implausibly in the writings of the Founding Fathers.

But Yoo's conclusions are rendered even more inexplicable by another point. After World War II was over and the full horror of what the Axis Powers had done was apparent, a consensus was reached to overhaul the Geneva Conventions with the express intention of repudiating the German evasions of the Conventions listed above. So, while these positions may have been arguable with respect to the two 1929 Geneva Conventions, they hardly could be invoked with respect to the 1949 Conventions. But Yoo continues to cite them, oblivious to the shifts in text and commentary that occurred in 1949.

So how does Yoo come by the work of Carl Schmitt, and why does he fail to acknowledge it in his publications? Yoo is currently a scholar in residence at the American Enterprise Institute, the center stage of the American Neoconservative movement. That movement traces itself back to Leo Strauss, the political philosopher who lived and taught for many years in Chicago. Though a Jew forced to flee Nazi Germany, Strauss was a lifelong admirer of Carl Schmitt, a scholar and teacher of his works. Moreover, Strauss’ early work in Germany played a key role in development of the Begriff des Politischen, and Schmitt’s intercession helped Strauss obtain a key scholarship that made his escape from Germany possible. Though arrested by the Americans and accused of complicity in Nazi crimes, Schmitt achieved a partial rehabilitation late in his life - thanks in large part to Leo Strauss. Indeed, Schmitt emerged as an essential part of the Neocon canon, and his work – including all the relatively obscure works cited here – were translated into English and published by the University of Chicago Press (also Yoo’s publisher). It is therefore hardly plausible to suggest that Yoo would be unfamiliar with the writings of Carl Schmitt. On the other hand, it is easy to surmise why he would fail to acknowledge his reliance on such a highly stigmatized writer. After all, Schmitt was a notorious antisemite best known for crafting the legal cover for Hitler's Machtergreifung.

Why Carl Schmitt Hates America
Carl Schmitt was a rational man, but he was marked by a hatred of America that bordered on the irrational. He viewed American articulations of international law as fraught with hypocrisy, and saw in American practice in the late nineteenth and early twentieth centuries a menacing new form of imperialism (“this form of imperialism… presents a particular threat to a people forced in a defensive posture, like we Germans; it presents us with the greater threat of military occupation and economic exploitation” he writes in 1932 – at a time of almost unprecedented American isolationism)(Die USA und die völkerrechtlichen Formen des modernen Imperialismus, p. 365). He saw in the peculiarly American notion of consensus-democracy an unsustainable foolishness, and in the Jeffersonian vision of small government with a maximum space for individual freedom a threat to his peculiar Catholic values.

Today, President Bush has again defended his indefensible treatment of detainees and claimed for himself rights that all his predecessors firmly disavowed. As president, he has cast aside the values of George Washington, Abraham Lincoln and Dwight Eisenhower – values on which the country was founded and built – and embraced instead those of Carl Schmitt, the lawyer who prostituted his genius to the cause of Fascism and fervently prayed for America’s destruction. What a great irony.

John Yoo and his colleagues present their critique of international humanitarian law as a validation of the sovereigntist tradition of the American Founding Fathers. That such claims can be taken seriously reflects a failure of critical thought in contemporary America. Yoo’s views on international humanitarian law have absolutely nothing to do with the Founding Fathers. They are a cheap, discredited Middle European import from the twenties and thirties. Viewed this way, it becomes increasingly clear where they would lead us.

samedi, 18 décembre 2010

Actualidad de Werner Sombart

Archives- 1968

Actualidad de Werner Sombart

 

AEI/ Un gran financiero norteamerica­na, batió su propio “record” conclu­yendo en cinco minutos, por teléfo­no, cinco grandes contratos que le proporcionaron una ganancia supe­rior al millón de dolores.

(De los periódicos) 

Werner_Sombart_vor_1930.jpgLa noticia del apresurado y dichoso financiero yanqui, nos trae al re­cuerdo la figura del gran economis­ta alemán profesor Werner Sombart, que ejerció docencia, justamente sonada, como profesor de Economía Política, en la Uni­versidad de Berlín, y cuya obra es una ver­dadera pena que aun no haya sido tra­ducida —que sepamos— al castellano.

Para Werner Sombart, el alma del bur­gués capitalista moderno recuerda el alma del niño a través de un singularísimo pa­recido. El niño, dice, posee cuatro valores fundamentales, que inspiran y dominan su vida toda. 

a) El tamaño, que se manifiesta en su admiración hacia el hombre adulto y más aun hacia el gigante. El burgués moderno —nos referimos siempre a la gran burgue­sía capitalista, especie tal vez a extinguir en este mundo supersónico que ha heredado la tragedia de la economía liberal— estima asimismo el tamaño en cifras o en es­fuerzo. Tener “éxito” en su lenguaje sig­nifica sobrepasar siempre a los demás, aunque en su vida interior, si es que la tiene, no se diferencia en nada de ellos. ¿Ha visto usted en casa de mister X, el Rembrandt que vale 200.000 dólares? ¿Ha contemplado el yate del presidente, que se encuentra desde esta mañana en el puerto, y cuyo valor sobrepasa el millón?…

b) La rapidez de movimientos, tradu­cida en el niño en el juego, en el carrusel, en no saber estarse quieto. Rodar a 120 por hora, tomar el avión más rápido, con­cluir un negocio por teléfono, no reposar, batir “records” financieros de ganancia constituye para el burgués moderno ilu­sión idéntica.

c) La novedad. El niño deja un juguete por otro, comienza un trabajo y lo aban­dona también, por otro, a su vez aban­donado. El hombre de empresa moderno hace lo mismo llamando a esto “sensa­ción”. Si los bailes, en los negocios, en la moda, en los inventos, lo que hoy es “sensacional” mañana se transforma en antigualla, como sucede con los modelos de los coches. Se vive angustiosamente al día, hasta que el corazón falle…

d) El sentimiento de “su poderío”. El niño arranca las patas a las moscas, des­troza nidos, destruye todos sus juguetes… El empresario que “manda” sobre 10.000 trabajadores se encuentra orgulloso de su poder, como el niño que ve a su perro obedecerle a una señal. El especulador afortunado en bolsa o enriquecido por el estraperlo se siente orgulloso de su safio poderío mirando por encima del hombro al prójimo. No existe en él caridad, como generalmente no existe caridad en el niño. Si analizamos este sentimiento veremos que en el fondo es una confesión invo­luntaria e inconsciente de debilidad: “Om­ina crudelitas ex infrimitate”, supo decir nuestro Séneca. 

EL CAPITALISMO MODERNO

Para el genial autor de “El capitalismo moderno”, un hombre grande, natural e interiormente, no concedería nunca un particular valor al poderío externo. El poder no presenta ningún atractivo sin­gular para Sigfrido, pero resulta irresisti­ble para Mimo. Una generación verdade­ramente grande, a la que preocupan los problemas fundamentales del alma huma­na, no se sentirá “engrandecida” ante unos inventos técnicos y no les concederá más que una relativa importancia, la impor­tancia que merecen como elementos del poder externo. En nuestra época resulta tristemente sintomático el que algunos po­líticos, que sólo han sabido sumir al mun­do en el estupor y en la sangre, se deno­minen asimismo como “grandes”.

Para Sombart, el capitalismo burgués que tiene como objetivo la acumulación indefinida e ilimitada de la ganancia, se ha visto hasta nuestros días, pues hoy el concepto se halla en plena crisis aunque su derrumbamiento no sea tal vez inmediato, favorecido por las circunstancias siguien­tes:

1) Por el desenvolvimiento de la téc­nica.

2) Por la bolsa moderna, creación del espíritu sionista, por medio de la cual se rea­bra a través de sus formas exteriores la tendencia hacia el infinito, que caracteriza al capitalismo burgués en su incesante ca­rrera tras el beneficio. 

Estos procesos encuentran apoyo en los siguientes aspectos: 

a) La influencia que los sionistas comen­zaron a ejercer sobre la vida económica europea, con su tendencia hacia la ganan­cia ilimitada, animados por el resentimien­to que, como sabemos, juega tan gran pa­pel en la vida moderna, según Max Scheler nos ha magníficamente demostrado, y por las enseñanzas de su propia religión, que los hace actuar en el capitalismo mo­derno como catalizadores.

b) En el relajamiento de las restric­ciones que la moral y las costumbres im­ponían en sus comienzos al espíritu capi­talista de indudable tinte puritano en la aguda y profunda tesis de Weber. Relaja­miento consecutivo a la debilitación de los principios religiosos y a las normas de ho­nor entre tos pueblos cristianos.

c) La inmigración o expatriamiento de sujetos económicos activos y bien dotados, que en el suelo extraño no se consideran ya ligados con ninguna obligación y es­crúpulo. Nos hallamos así, de nuevo ante el interrogante que se plantea el maestro.

¿Qué nos reserva el porvenir? Los que ven que el gigante desencadenado que lla­mamos capitalismo es un destructor de la naturaleza de los hombres, esperan que llegará un día en que pueda ser de nuevo encadenado, rechazándole hasta los lími­tes franqueados. Para obtener este resul­tado se ha creído encontrar un medio en la persuasión moral. Para Sombart, las tendencias de este género se encuentran aproadas hacia un lamentable fracaso. Para el autor de “El burgués”, el capita­lismo que ha roto las cadenas de hierro de las más antiguas religiones hará saltar en un instante los hilos que le tiendan es­tos optimistas. Todo lo que se pueda hacer en tanto que las fuerzas del gigante que­den intactas, consiste en tomar medidas susceptibles de proteger a los hombres, a su vida y a sus bienes, a fin de extinguir como en un servicio de incendios las brasas que caigan sobre las chozas de nuestra civili­zación. El mismo Sombart señala como sintomático el declive del espíritu capita­lista en uno de sus feudos más intocables: Inglaterra, y esto lo decía en 1924…

El saber lo que sucederá el día en que el espíritu capitalista pierda la fuerza que todavía presenta no interesa particular­mente a Sombart. El gigante, transforma­do en ciego, será quizá condenado, y cual nuevo Sisifó arrastra el carro de la civi­lización democrática. Quizá, escribe, asis­tamos nosotros al crepúsculo de los dio­ses, y el oro sea arrojado a las aguas del Rhin, erigiéndose en trueque valores más altos.

¿Quién podrá decirlo? El mañana, esa cosa que llamamos Historia, quizá. Por ello, más que Juicios, “a priori”, preferimos aquí dar testimonios. Lo que pasa, y lo que pue­da pasar en la ex dulce Francia, funda­mentalmente burguesa y con sentido de la proporción hasta ahora, podrá ser un gran indicio histórico. 

José Mª. CASTROVIEJO

ABC, 19 de junio de 1968.

mercredi, 01 décembre 2010

Un grand catholique: Carl Schmitt

Un grand catholique : Carl Schmitt

par Rémi Soulié

Ex: http://stalker.hautetfort.com/ 

Série: (Infréquentables, 6) - Tous les infréquentables.

Le texte de Rémi Soulié, ci-dessous légèrement amendé, a paru dans le numéro spécial de La Presse littéraire consacré aux écrivains infréquentables.

«Je tiens Carl Schmitt pour un profond penseur catholique…»
Jacob Taubes.


carl_schmitt9999.jpgAucun bricolage néo-kantien ne pourra longtemps masquer le nihilisme démocratique et la vacuité moderne – d’autant moins d’ailleurs que cet excellent lecteur de Kant que fut Jacobi diagnostiqua parmi les premiers la maladie nihiliste que les trois Critiques incubèrent fort peu de temps avant qu’elle ne se déclare. L’Europe, c’est-à-dire très exactement la chrétienté selon Novalis, ne pourra réagir qu’en opposant son antidote souverain : le catholicisme. On peut prendre la question dans tous les sens, ce n’est qu’en réactivant l’interrogation théologico-politique, comme l’ont compris Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt, mais aussi Leo Strauss et Jacob Taubes d’un point de vue juif, donc, en dernière analyse, chrétien, que l’on pourra faire rendre gorge au néant. L’adhésion très temporaire de Carl Schmitt au NSDAP (après d’ailleurs qu’il a mis tout Weimar en garde, dès 1932, sur le danger national-socialiste et l’urgence à interdire, par l’article 48 de la Constitution, les partis communiste et nazi) ne s’explique là encore que par la mystique au sens de Péguy – et non la politique: le catholique conséquent croyant en l’existence de l’univers invisible et donc des mauvais anges peut être abusé par les ruses et les séductions de l’Ennemi (au sens schmittien, d’une certaine façon, nous y reviendrons) jusqu’à prendre des vessies pour des lanternes et le point culminant du nihilisme actif (et non passif, celui-ci relevant de la juridiction démocratique) pour le paroxysme de la vérité. À la lettre oxymorique, il côtoie toujours les cimes des abîmes, comme un abbé Donissan ou un curé d’Ambricourt et à la différence de n’importe quel démocrate-chrétien. Les enfileurs de perles et les analystes du rien, hommes du ni oui ni non, font aujourd’hui écran au théologien politique, homme des affirmations absolues et des négations souveraines fidèle à l’Évangile («Que votre oui soit oui, que votre non soit non», Mt 5, 37) alors que ce dernier est évidemment requis par la tiédeur infernale. Le libéralisme, hostile à toute forme de vision, ne voit bien entendu se profiler aucune eschatologie à l’horizon de sa myopie : il rassemble l’alpha et l’oméga de l’Histoire – formule inadéquate quoique révélatrice de la parodie – dans l’alternance, le marché, l’hédonisme, le sentimentalisme et l’humanitarisme (ce que Schmitt appellera, non sans mépris, «la décision morale et politique dans l’ici-bas paradisiaque d’une vie immédiate, naturelle, et d’une «corporéité» sans problèmes» ou «les faits sociaux purs de toute politique»). Qui décidera de l’état d’exception en cas de guerre civile ? Le souverain, soit, personne (l’anti-personne démoniaque – en ceci, le désespoir demeure en politique une sottise absolue, puisque aussi bien le diable porte pierre).

Né en 1888 dans une famille catholique de Rhénanie lointainement originaire de Lorraine, le jeune Carl Schmitt se définit ainsi : «J’étais un jeune homme obscur, d’ascendance modeste […]. Je n’appartenais ni aux couches dirigeantes, ni à l’opposition […]. La pauvreté et la modestie sociale étaient les anges gardiens qui me tenaient dans l’ombre. C’était un peu comme si, me tenant dans un noir total […] j’avais depuis mon poste observé une pièce vivement éclairée […]. La tristesse qui me remplissait me rendait plus distant et suscitait chez les autres distance et antipathie. Pour les couches dirigeantes, quiconque ne vibrait pas à l’idée de les côtoyer était un corps étranger. Il s’agissait de s’adapter ou de se retirer. Je demeurai donc à l’extérieur.» Il poursuit : «Pour moi, la foi catholique est la religion de mes ancêtres. Je suis catholique non pas seulement par confession, mais par origine historique, et si j’ose dire, par la race» (où l’on notera, avec ce dernier terme, l’influence de Péguy).
Lecteur de L’Action Française, francophile, classique, latin, Carl Schmitt s’inscrit également dans la lignée des penseurs qui refusèrent l’absolutisation de la raison trop humaine aux côtés du Karl Barth commentateur de l’Épître aux Romains dans le domaine protestant ou de Martin Buber dans les études juives, fussent-elles hétérodoxes. Si, comme il l’affirme, tous les concepts fondamentaux de la théorie moderne de l’État sont des concepts théologiques sécularisés – ainsi, par exemple, de l’état d’urgence pensé en analogie avec le miracle puisque dans l’un et l’autre cas, la législation naturelle ou politique est rompue par ceux-là mêmes qui l’ont instituée –, seule la théologie permettra de cerner la vérité des sociétés qui croient s’être affranchies de l’une et de l’autre. Le libéralisme nie l’essence de la haute politique qui suppose, en termes schmittiens, un ennemi c’est-à-dire un conflit (chez les pères de l’Église et saint Augustin en particulier, l’Ennemi, c’est le Mauvais, ce qui peut être également le cas chez Schmitt dès lors que la dramaturgie historique oppose in fine le Christ et l’Antéchrist). En niant l’immortalité de l’âme ou en renvoyant cette croyance dans la sphère privée – ce qui revient au même –, le libéral tente de remplacer la tragédie par le vaudeville. La haute politique présuppose la croyance dans le péché originel, la discrimination de l’ami et de l’ennemi qu’elle induit, la dénonciation des leurres de l’Antéchrist – paix perpétuelle, harmonie universelle, gouvernement mondial («Vous savez vous-mêmes que le Jour du Seigneur arrive comme un voleur en pleine nuit. Quand les hommes se diront : Paix et Sécurité ! c’est alors que tout d’un coup fondra sur eux la perdition, comme les douleurs sur la femme enceinte, et ils ne pourront y échapper» (I Thessaloniciens, 5, 2-3) -, l’acceptation de notre condition de créature, donc d’être limité voué à la mort voire au «sérieux» du sacrifice, la décision, enfin, dont l’infaillibilité pontificale pourrait être l’un des modèles. Avec Donoso Cortès, Carl Schmitt considère que le libéralisme et la démocratie consistent soit à ne pas répondre à la question «le Christ ou Barrabas ?» en multipliant les motions de renvoi en commission ou, mieux, en créant une commission d’enquête, soit à y répondre nécessairement par la libération de Barabbas, comme Hans Kelsen en convient d’ailleurs mais pour s’en féliciter, c’est-à-dire par la mise à mort de Dieu – ou, dirait Benny Lévy d’un point de vue juif donc chrétien, par le «meurtre du Pasteur». (L’établissement de la République, en France, releva encore partiellement du domaine politique et donc non libéral puisque les républicains avaient désigné en l’Église catholique l’ennemi «schmittien», et c’était de bonne guerre cela va de soi; la «lutte millénaire entre le christianisme et l’islam» (La Notion de politique ) en est un autre exemple).
Comme aucun discours véridique ne peut être proféré sans que son auteur ne subisse d’une manière ou d’une autre la persécution de ceux-là mêmes à qui il s’adresse ou qu’il défend – toute l’histoire biblique l’atteste –, Schmitt, à l’instar de Maurras, souffrit par l’Église catholique. Sur un coup de tête, il épouse à Munich, pendant la Grande Guerre, une affreuse mythomane originaire de Bohême, Paula Dorotic, qui s’enfuit peu de temps après avec, comble de l’horreur, une partie de sa bibliothèque. Le mariage est annulé civilement le 18 janvier 1924 mais la «bureaucratie de célibataires» que peut être aussi la sainte Église catholique, apostolique et romaine refuse par deux fois d’annuler cette union malencontreuse. Schmitt se résout à se remarier et fut ainsi privé des sacrements jusqu’en 1950, date de la mort de sa seconde épouse. Voilà un signe supplémentaire attestant de son élection.
Excellent papiste, il prend la défense de l’Inquisition, même s’il déplore qu’elle ait été hélas pervertie par l’usage de la torture : «Ce fut une mesure terriblement humaine que la création du «droit inquisitorial» par le pape Innocent III. L’Inquisition fut sans doute l’institution la plus humaine qu’on puisse imaginer, puisqu’elle partait de l’idée qu’aucun accusé ne pouvait être condamné sans aveux […]. En termes d’histoire du droit, l’idée d’Inquisition ne peut guère être contestée, même aujourd’hui» (1).
(On ne s’étonnera pas qu’il argumente une fois encore dans des termes voisins de ceux de Péguy, dans un ordre comparable : «La politique de frapper les têtes (les mauvaises têtes) est une politique d’économie, et même la seule politique d’économie […]. Rien n’est humain comme la fermeté. C’est Richelieu qui est humain – et c’est Robespierre qui est humain. C’est la Convention nationale qui est en temps de guerre le régime de douceur et de tendresse. Et c’est l’Assemblée de Bordeaux et le gouvernement de Versailles qui est la brutalité de la brute et l’horreur et la cruauté. [… ] Tout mon vieux sang révolutionnaire me remonte et […] je ne mets rien au- dessus de ces excellentes institutions d’ancien régime, qui se nomment le Tribunal Révolutionnaire et le Comité de Salut Public et même je pense le Comité de Sûreté Générale… […] et je ne mets rien au-dessus de Robespierre dans l’ancien régime»).

Car Schmitt défendra bien entendu le Grand Inquisiteur contre l’orthodoxe Dostoïevski. En ces temps qui sont les derniers, autrement dit en régime apocalyptique, il écoute les derniers prophètes : «Remarquez-le bien, il n’y a déjà plus de résistances ni morales ni matérielles. Il n’y a plus de résistances matérielles : les bateaux à vapeur et les chemins de fer ont supprimé les frontières, et le télégraphe électrique a supprimé les distances. Il n’y a plus de résistances morales : tous les esprits sont divisés, tous les patriotismes sont morts […]. Il s’agit de choisir entre la dictature qui vient d’en bas et la dictature qui vient d’en haut : je choisis celle qui vient d’en haut, parce qu’elle vient de régions plus pures et plus sereines. Il s’agit de choisir, enfin, entre la dictature du poignard et la dictature du sabre : je choisis la dictature du sabre, parce qu’elle est plus noble».
Une chose est sûre : «Le monde avance à grands pas vers l’établissement du despotisme le plus violent et le plus destructeur que les hommes aient jamais connu […]. Je tiens pour assurer et évident que, jusqu’à la fin, le mal triomphera du bien et que le triomphe sur le mal sera, en quelque sorte, réservé à Notre Seigneur. Il n’est donc aucune période historique qui ne soit destinée à s’achever en catastrophe.»
Ainsi s’exprimait Donoso Cortès au parlement espagnol le 4 janvier 1849 dans son Discours sur la dictature. À Ernst Jünger, Schmitt confiera qu’il considère ce texte comme «le plus extraordinaire discours de la littérature mondiale sans excepter ni Périclès et Démosthène, ni Cicéron ou Mirabeau ou Burke».
Carl Schmitt continue de lire Dostoïevski, Sorel, Bloy, pour qui il a de la «vénération» – c’est lui qui introduit d’ailleurs Jünger à la lecture du Belluaire. Il saluera plus tard «la magnifique confrontation d’un Allemand avec Léon Bloy» dans le Journal de Jünger, qui est «le plus grand document de la spiritualité européenne contemporaine.» Comme tout homme bien né, Schmitt attend donc les Cosaques et le Saint-Esprit, soit, la Rédemption – d’où son influence sur Benjamin, qui lui envoie ses Origines du drame baroque allemand et l’assure de l’influence méthodologique de La Dictature sur ses propres réflexions esthétiques mais aussi de sa dette à l’endroit de sa «présentation de la doctrine de la souveraineté au XVIIe siècle», sur Leo Strauss également ou sur l’«archijuif» – comme il se définissait lui-même – Jacob Taubes. Une étude sérieuse des relations entre Carl Schmitt, les Juifs et le judaïsme, que l’on attend toujours (2), devrait également intégrer la notion cardinale de Nomos : si Schmitt se refuse de la traduire par «loi», ce qui pourrait être hâtivement interprété comme une oblitération du judaïsme, il la comprend à partir des trois catégories fondamentales qui y sont incluses – prendre, partager et paître – ce dernier terme engageant certes le Bon Pasteur christique mais également… David ou Moïse (3). Sans mythe structurant, les agnostiques modernes, eux, collaborent pendant ce temps à la damnation du monde tout en jacassant.
Mais c’est surtout par l’analyse de la figure essentielle du katékhon que Carl Schmitt manifeste une hauteur de vue et un sens aigu de l’Histoire toujours sainte dont la pertinence demeure bouleversante. Pour la comprendre, il faut se reporter à un passage particulièrement difficile de la deuxième Épître aux Thessaloniens de saint Paul concernant ce qui précèdera la parousie : «Il faut que vienne d’abord l’apostasie et que se révèle l’Homme de l’impiété, le Fils de la perdition […]. Et maintenant, vous savez ce qui le retient [tò katékhon], pour qu’il ne soit révélé qu’en son temps. Car le mystère de l’impiété est déjà à l’œuvre; il suffit que soit écarté celui qui le retient [ho katékhon] à présent. Alors se révèlera l’Impie, que le Seigneur Jésus détruira du souffle de sa bouche» (2, 3-9). Qui est ce Katékhon, ce «Rétenteur» ou «Retardateur» dont le rôle est ambigu puisqu’à la fois il empêche la survenue des catastrophes finales mais en même temps retarde d’autant la seconde venue du Christ en gloire et donc de la fin de l’histoire puis du Jugement ? Est-il personnel ? Impersonnel ? Saint Jérôme et saint Jean Chrysostome l’identifièrent avec l’Empire romain; dans la terminologie schmitienne, ce rôle semble tenu successivement par le dictateur commis ou souverain, le défenseur de la Constitution ou le Léviathan, ceci étant révélateur de sa propre hésitation entre la nécessité de conserver partiellement ce qui est et sa non moins nécessaire liquidation partielle ou totale (où Bloy s’impatiente, Schmitt temporise). Voilà pour l’interprétation positive. Sur un plan mystique, ce thème manifeste la nécessité de maintenir ouverte la brèche qui déchire la terre, monte au ciel et plonge en enfer, pendant le règne vermineux du dernier homme (règne possiblement antéchristisque, ce qui infirmerait la pérennité de l’action katékhontique). En elle est serti le roc de Pierre, le Corps visible de Jésus-Christ que cette tension ne parvient pas à écarteler. La mission katékhontique relève peut-être de l’Église catholique, et en particulier de l’ordre jésuite, comme Schmitt le suggère dans son Glossarium : elle seule détiendrait le pouvoir mystérieux de prononcer en même temps le «Marana Tha» de l’Apocalypse – «Viens, Seigneur Jésus !» – et la demande d’un délai de grâce (Schmitt sait que le temps n’est pensable qu’en terme de délai, comme tous les Juifs conséquents). D’une manière énigmatique, comme il convient d’évoquer ces questions, il écrit à Pierre Linn en 1932 : «Vous connaissez ma théorie du katékhon. Je crois qu’il y a en chaque siècle un porteur concret de cette force et qu’il s’agit de le trouver. Je me garderai d’en parler aux théologiens, car je connais le sort déplorable du grand et pauvre Donoso Cortès. Il s’agit d’une présence totale cachée sous les voiles de l’histoire». Jacob Taubes, grand interlocuteur de Schmitt, comprend simplement le katékhon, dans sa Théologie politique de Paul, comme une tentative de dominer le chaos par la forme.
À ceux qui prétendent que l’Église catholique a désamorcé la charge évangélique, Schmitt répond que la juridisation est la réalisation : «Car qu’est-ce que le droit ? La réponse de Hegel est : le droit est l’Esprit se rendant effectif. […] L’Église romaine est réalité historique». Théodore Paléologue a donc raison de considérer que «la politisation schmittienne du katékhon répond à la conviction que l’Esprit doit se rendre effectif et que toute idée chrétienne est une idée incarnée».
«Homme de contemplation», comme il se définissait lui-même, dont «le centre inoccupable» de la pensée «n’est pas une idée, mais un événement historique, l’Incarnation du Fils de Dieu», grand démystificateur des impuissances libérales et de leur juridisme – lequel ne serait que ridicule s’il n’était enclin au totalitarisme – Carl Schmitt a dénoncé le misérable «affect anti-romain» sous la domination duquel nous survivons. Comme Heidegger, dit Jacob Taubes, il a posé des questions fondamentales, en ceci précisément intolérables au libéralisme (qui ne tolère que les insignifiantes), d’où son éviction et la «récitation» obligatoire, dit toujours Taubes, de «l’ABC démocratique» qui doit s’en suivre. Schmitt définit «la clé secrète de toute [son] existence spirituelle et de toute [son] activité d’auteur» comme «le combat pour la radicalisation authentiquement catholique», laquelle constitue sans doute aussi le «savoir intègre» qu’il appelait de ses vœux, au service de la «pensée concrète de l’ordre». Une certitude néanmoins : «Jusqu’au retour du Christ, le monde ne connaîtra pas l’ordre».

Carl Schmitt est mort le dimanche de Pâques 7 avril 1985.

Notes
(1) En 1936 (N.d.a.), Schmitt s’inscrit ici dans la lignée de Joseph de Maistre pour qui «L’inquisition est, de sa nature, bonne, douce, conservatrice».
(2) Je ne méconnais pas l’étude de Raphaël Gross, Carl Schmitt et les Juifs (PUF, 2005, préface d’Yves-Charles Zarka, traduction de Denis Trierweiler) mais elle est hélas exclusivement à charge.
(3) Voir, à nouveau, le très beau livre de Benny Lévy, Le Meurtre du Pasteur (Grasset, 2002) mais, également, Rémi Soulié, Avec Benny Lévy (Le Cerf, 2009).

Bibliographie succincte
- Carl Schmitt, Théologie politique (Gallimard, 1988).
- Heinrich Meier, Carl Schmitt, Leo Strauss et la notion de politique. Un dialogue entre absents (Julliard, 1990).
- Sous la direction de Carlos-Miguel Herrera, Le droit, le politique. Autour de Max Weber, Hans Kelsen, Carl Schmitt (L’Harmattan, 1995).
- Jacob Taubes, La Théologie politique de Paul. Schmitt, Benjamin, Nietzsche et Freud, Seuil, 1999 et En divergent accord. À propos de Carl Schmitt (Payot, 2003).
- Théodore Paléologue, Sous l’œil du Grand Inquisiteur. Carl Schmitt et l’héritage de la théologie politique (Cerf, 2004).
- David Cumin, Carl Schmitt. Biographie politique et intellectuelle (Cerf, 2005).
- Gopal Balakrishnan, L’Ennemi. Un portrait intellectuel de Carl Schmitt (Éditions Amsterdam, 2006).

L'auteur
Rémi Soulié, né en 1968 en Rouergue. Essayiste, critique littéraire au Figaro Magazine, il a récemment consacré un essai à Benny Lévy (Le Cerf, 2009) et prépare une étude, De l'Histoire sainte : Joseph de Maistre, Donoso Cortès, Carl Schmitt.

samedi, 27 novembre 2010

Quel "Terzo Regno" del socialismo nazionale europeo

Quel “Terzo Regno” del socialismo nazionale europeo

Autore: Luca Leonello Rimbotti

Ex : http://www.centrostudilaruna.it/

moeller.jpgArthur Moeller van den Bruck fu uno dei più alti risultati ideologici conseguiti dallo sforzo europeo di uscire dalle contraddizioni e dai disastri della modernità: fu uno dei primi a politicizzare il disagio della nostra civiltà di fronte all’affermazione mondiale del liberalismo e all’ascesa della nuova anti-Europa, come fin da subito fu giudicata l’America dai nostri migliori osservatori. Di qui una netta separazione del concetto di Occidente da quello di Europa. Il rifiuto dell’Occidente capitalista e della sua violenta deriva antipopolare doveva condurre in linea retta ad una rivoluzione dei popoli europei, ad un loro ringiovanimento, al loro rilancio come vere democrazie organiche di popolo. Come tanti altri ingegni dei primi decenni del Novecento, anche Moeller vide subito chiaro ciò che ancora oggi molti nostri contemporanei non riescono a distinguere: la perniciosità del liberalismo, la mortifera distruttività delle tecnocrazie capitaliste, l’inganno di fondo che dava e dà sostanza a quel centro di decomposizione mondiale, che già allora erano gli USA: falsa democrazia, impero della Borsa, libertà sì, ma unicamente per il dominio delle sette affaristiche.

In una parola, per chiunque avesse occhi per vedere, era evidente che un trucco liberale stava per gettare sui popoli del mondo la sua rete di potere, gestita da minoranze snazionalizzate e apolidi: “L’appello al popolo – scrisse Moeller ne Il terzo Reich, il suo libro più famoso, pubblicato nel 1923 – serve alla società liberale soltanto per sentirsi autorizzata ad esercitare il proprio arbitrio. Il liberale ha utilizzato e diffuso lo slogan della democrazia per difendere i suoi privilegi servendosi delle masse”. Chiaro come il sole! Ottant’anni fa, e con tanta maggiore profondità di analisi politica degli odierni cosiddetti no-global, ci fu qualcuno che centrò in pieno l’obiettivo politico, segnalando con forza quale razza di tarlo stesse corrodendo dall’interno la nostra civiltà … ben più lucidamente di tante “sinistre” – ma anche di tante “destre”… – di allora come di oggi, antagoniste di nome ma complici di fatto.

Il disegno politico di Moeller era preciso: instaurazione di un socialismo conservatore; edificazione di una comunità solidale fortemente connotata dai valori nazionali; avvento di una “democrazia elitaria e organicista”: il tutto, inserito in un quadro di ripresa del ruolo mondiale dell’Europa, gettando uno sguardo di simpatia verso la Russia, il cui bolscevismo Moeller – che fin da giovane fu ammiratore della cultura russa e di Dostoewskij in particolare – giudicava passibile di volgersi prima o poi in un sano socialismo nazionale. Era, questa, l’impostazione generale di quel movimento degli Jungkonservativen che faceva parte della più vasta galassia della Rivoluzione Conservatrice, la dinamica risposta tedesca alla sconfitta del 1918 e alle insidie della moderna tecnocrazia cosmopolita, da cui prese corpo infine il rovesciamento nazionalsocialista.

Il senso ultimo del messaggio ideologico di Moeller è dunque duplice: da un lato, denuncia del dominio dell’economia sulla politica, per cui in Occidente, come egli scrisse, “il rivolgere l’attenzione alla fluttuazione del denaro ha sostituito la preghiera quotidiana”; dall’altro lato, fortissimo impulso alla ripresa della nazione, da incardinarsi su quel moderno corporativismo antiparlamentare in cui lo scrittore tedesco vedeva la vera rappresentanza del popolo, la vera partecipazione alla “comunità di lavoro”. L’occasione di una rinnovata riflessione sul pensiero antagonista di Moeller viene adesso offerta dal libro di A. Giuseppe Balistreri, Filosofia della konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck (edizione Lampi di Stampa, Milano 2004). Un testo da cui si ricava, ancora una volta e supportata da una preziosa mole di riferimenti scientifici, l’importanza di un progetto politico che non si estingue nella circostanza storica in cui l’autore visse – la Germania guglielmina e poi quella weimariana – ma si presenta a tutt’oggi con la freschezza di un referente politico attualissimo, reso anzi ancora più immediato dal crescente tracollo che negli ultimi decenni ha investito il concetto europeo di nazione sociale.

Moeller ebbe la capacità di risvegliare un sistema ideologico – il socialismo antimarxista – e di collocarlo a fianco del valore-nazione, così da presentare alle masse, stordite dalla doppia aggressione del bolscevismo e del liberalismo capitalista, un modello politico che, se da un lato intendeva rinnovare la società, dall’altro mostrava di volerlo fare senza distruggere i patrimoni di cultura, di socialità e di tradizione comunitaria che l’Europa aveva costruito in secoli di lotte. Tutto questo venne racchiuso dal termine terzo Reich: un’evocazione politica che portava in sé anche una volontà di rigenerazione morale, di rivincita religiosa sul materialismo, e che nascondeva l’antico sogno del millenarismo. Da Gioacchino da Fiore in poi, il “terzo regno” significò aspettativa, non solo religiosa ma anche politica, di un mondo finalmente giusto. Era dunque un mito. E Moeller reinterpretò questo mito in chiave ideologica, mettendolo a disposizione delle masse. Come scrive Balistreri, “il terzo Reich è un mito soreliano”. Questo mito soreliano di attivizzazione del popolo fu infine organizzato politicamente dal Nazionalsocialismo il quale, se non coincise con l’elitarismo e l’impoliticità della Rivoluzione Conservatrice, ne tradusse le istanze teoriche in decisioni politiche, trasformando l’ideologia culturale in politica quotidiana di massa.

Certo, il conservatorismo di Moeller, il suo disegno di una società “dei ceti”, secondo una concezione corporativa conservatrice, rientrava in una tradizione tedesca – quella della Körperschaft, la “comunità dei ranghi sociali” – che esisteva fin dal prussianesimo ottocentesco. E tuttavia la novità del terzo Reich moelleriano consiste nell’abbinare questa tradizione con le esigenze della moderna società di massa. E’ su questo punto che il vecchio conservatorismo doveva diventare il nuovo socialismo. Questo socialismo, come scrive Balistreri riassumendo la concezione moelleriana, “ristabilirà la democrazia nazionale di stampo tedesco, bandendo il liberalismo, il parlamentarismo e il sistema dei partiti, creerà la Volksgemeischaft che si costituirà secondo l’idea dell’articolazione per ceti e corporazioni, e si reggerà in base al Führergedanke“. Moeller aveva compreso che al tentativo di una piccola minoranza di internazionalisti liberali di condurre le nazioni alla sparizione nella “globalità”, si risponde con la nascita di un socialismo dei popoli.

* * *

Tratto da Linea del 12 settembre 2004.

Giuseppe A. Balistreri, Filosofia della Konservative Revolution: Arthur Moeller van den Bruck

vendredi, 26 novembre 2010

Ernst Jünger - La civiltà come maschera

Ernst Jünger. La civiltà come maschera

Autore: Marco Iacona

Ex: http://www.centrostudilaruna.it

La prima figura in ordine cronologico estrapolabile dai lavori giovanili di Ernst Jünger, (ma probabilmente prima anche per importanza) è quella del soldato. Il combattente nella terra di nessuno, il giovane che in solitudine affronta con invidiabile coraggio le truppe e che osserva con lungimiranza l’affermarsi della guerra dei materiali, è già in grado di assumere una propria posizione ideologica che influenzerà parte della cultura tedesca negli anni a venire. Le azioni e le idee del giovane Ernst (qualunque significato assumano) costituiscono, in questi primi anni, un esempio che verrà trasmesso per mezzo delle opere scritte, alla gioventù tedesca e in particolare alle migliaia di reduci insoddisfatti. Tuttavia nello stesso periodo, agli scritti di guerra Jünger alternerà opere di carattere più marcatamente psicologico, e ciò fino agli inizi degli anni ‘30 quando dando alle stampe Der Arbeiter, concluderà oltre un decennio di studi e riflessioni. Nei paragrafi che seguono ci occuperemo di approfondire l’attività del grande scrittore negli anni del primo dopoguerra.

A diciannove anni i sogni africani di Ernst Jünger sono arrivati dinanzi ad un bivio. «Il tempo dell’infanzia era finito» afferma il giovane Berger, alla fine dell’avventura nella Legione Straniera, si può rimanere, cominciare una vita borghese, fatta di agi, piccole e vecchie corruzioni, o si può continuare non fuggendo ma agendo, per soddisfare una incancellabile voglia di protagonismo e scacciare l’horror vacui della crisi. Forte di queste convinzioni, soltanto un cuore avventuroso avrà il coraggio di raggiungere il fronte, poiché è alla ricerca di uno stile di vita maledettamente non-borghese, di un antidoto alla insoddisfazione, di un ideale per cui battersi fino all’estinzione. Accadrà che nel corso della guerra, il fuoco causerà quattordici ferite al corpo del giovane Ernst, ma il pericolo stesso finirà col correggere l’acerba vitalità della recluta: la Grande guerra trasformerà il giovane tenente in un uomo, ne scolpirà il carattere, permetterà lo sviluppo di un pensiero audace.

Nel dopoguerra Ernst Jünger, «soffre la pace» e l’inattività, decide di chiudersi in se stesso, e dopo l’elaborazione dei diari di guerra, «butta giù» numerose riflessioni in forma di schizzo che più tardi comporrà in volume, ama leggere gli scrittori «maledetti», autori dallo spirito fortemente irrequieto, poeti e narratori che sente «propri», è alla ricerca di qualcosa e «crede alla fine di trovarla nell’ascesa della politica tedesca a cui prenderà parte». Le riviste nazionaliste lo attraggono, sceglie l’opposizione alla borghesia e al liberalismo e agli inizi degli anni ‘30 pubblica due fra le più importanti opere del primo periodo: Die totale Mobilmachung e Der Arbeiter ove sviluppa le proprie idee frutto degli anni di riflessione e studio. Si tratta di opere che indagano la realtà con sguardo fermo, a volte spinto agli eccessi, ma guidato dall’onestà intransigente dell’ex combattente.

In tutto il primo periodo, Jünger dimostra di poter abbracciare, grazie ad una scrittura facile e dal contenuto sempre «a fuoco», vari temi: è passato, via via, dai resoconti di guerra, alle riflessioni psicologiche e biografiche per approdare infine, negli anni ‘30, al saggio teorico «impersonale». È agevole notare una natura di scrittore «poco regolata», desiderosa di espressione continua per mezzo di forme diverse e in grado di soddisfare una varietà di esigenze mai fissate a priori. Se la guerra lo ha costruito come uomo, il dopoguerra lo costruisce come scrittore, la scrittura viene utilizzata (secondo alcuni critici, in modo assolutamente inconscio) per superare le crisi del combattente e del reduce e le conseguenze psicologiche ad esse legate. Tuttavia se volessimo tentare una lettura organica degli scritti di cui si è detto, si rende opportuna la ricerca di un leitmotiv che percorra tutta l’opera jüngeriana, costituendone, per così dire, una spina dorsale ideale. Date le premesse, questo tentativo facilita la costruzione di basi idonee a liberare il pensiero di Ernst Jünger da quell’indeterminatezza che alcuni hanno evidenziato, accostandolo ad un tempo ad un ben individuato filone intellettuale e politico.

Per Marcel Decombis la ricerca di un solido punto di vista ha, in Ernst Jünger (malgrado la mancanza di uno specifico metodo) «principi assolutamente fissi», postulati da una forza eminentemente rivoluzionaria; vale a dire lo scrittore manifesta nelle proprie opere una volontà di rottura dello status quo coerentemente sostenuta da un atteggiamento negazionista. D’altro canto, Jünger non può essere annoverato tra i pensatori nihilisti: egli manterrebbe infatti un atteggiamento perennemente (anche se simbolicamente) positivo. Affrontando ogni difficoltà ma mai certo della propria sopravvivenza egli ha dimostrato di intendere l’esistenza, descritta prevalentemente nelle forme del diario-romanzo, nei termini di una vita che nasce dalla morte. Questo capovolgimento dottrinario della natura, già utilizzato da Hölderlin ma presente anche in Wagner e Nietzsche, rappresenta un omaggio sia alla viva forza come sostantivo imperituro, sia alla mortalità generatrice come presupposto di un’idea di immortalità. «Penetrato da questa convinzione, Jünger, chiede [...]che si faccia tabula rasa del passato, prima di porre le basi del futuro». Pertanto le durissime, tragiche prove contenute in ogni esistenza, servono soltanto da prologo al compiersi di uno spirito rigeneratore: guerra, caos, anarchia, non possono che rafforzare la volontà di ciò che è già forte, «la distruzione [non può che avere] un effetto creativo». Riassumendo: le crisi degli anni ‘20 conducono all’elaborazione di opere distruttive, prima di crudo realismo, poi di opposizione interiore, la rigenerazione si rivela nell’opera politica degli anni ‘30, quando tutte le difficoltà precedenti assumono la forma di una nuova dottrina.

Sulla scorta di quanto ha scritto Langenbucher, si può operare un’importante distinzione tra i grandi artisti che presero parte alla guerra nel 1914. Alcuni come George, al momento dello scoppio del conflitto erano adulti, con una personalità formata in pieno e dunque «già carichi di pregiudizi»; altri, Jünger fra questi, erano giovanissimi e molto più adatti a descrivere la nuova esperienza di cui erano così intensamente partecipi; questi ultimi saranno pronti a narrare i trascorsi avvenimenti con una «purezza di intenzioni» che caratterizzerà in modo netto l’intreccio narrativo di numerosissime opere.

Sebbene di diari di guerra, dotati di crudo e visibile realismo, la letteratura del primo dopoguerra abbondi, l’opera di Jünger «è unica nel suo spirito». Decombis individua in essa uno spirito ricco di certezze; i diari jüngeriani sono memorie «spogliate di ogni carattere soggettivo al punto da apparire come dei semplici documenti». In Stahlgewittern è un libro contenente un’elencazione di fatti, spesso identici, che si susseguono nella loro concreta monotonia, è un’opera senza censure, o convenienti omissioni che presenta pagina dopo pagina, un freddo spettacolo di estinzione ed un dietro le quinte fatto di snervante attesa. È il libro che riassume quattro anni di guerra. Das Wäldchen 125 mostra invece un particolare essenziale della lunga esperienza del fronte: la difesa di una postazione di prima linea, è un episodio che in sé riassume la violenza degli attacchi e dei contrattacchi. Feuer und Blut è la narrazione di un giorno al fronte: la controffensiva tedesca del 21 marzo 1918 (evento che Jünger non dimenticherà mai); il soggetto è, dunque, ancora una volta la Grande guerra.

Der Kampf als inneres Erlebnis, può essere considerato un ponte tra le opere narrative di cui si è testé detto ed i lavori successivi. Si apre con essa il periodo di grande riflessione ed elaborazione intellettuale dell’esperienza vissuta. In quest’opera lo scrittore di Heidelberg riflette sul bisogno psicologico di uccidere e sulla distruzione come legge «essenziale» della natura; ma le azioni dell’uomo qui assumono il valore di «flagello necessario» che alimenta un salutare spirito di rinascita. La guerra è «il più potente incontro tra i popoli», ogni principio tra le genti si è affermato attraverso la guerra, essa viene accettata (così come non viene rimosso il ricordo di quattro anni di trincea) perché inevitabile, ed anzi l’accettazione è legata intimamente allo studio delle tecniche di offesa. Una procedura indispensabile per «non rimanere vittima dell’evento», affrontarlo senza soccombere, e dare un’idea di cosa la guerra sia e quale sforzo straordinario il combatterla comporti.

Dunque, a ben vedere, la scelta dello scrittore è di non cantare le lodi della guerra in modo dissennato, bensì di rappresentarla con totalizzante realismo, tentando di ricercarne «un’anima» che possa superare l’emergere delle contraddizioni che la ragione stenta a spiegare. Così egli ha registrato la Materialschlacht, ha convissuto per anni con l’assoluta impotenza del soldato in trincea, ed andando alla ricerca di un proprio «ruolo da protagonista», ha inteso dare alla materialità proprie regole e confini. Jünger accetta la guerra tecnologica («il regno della macchina dinnanzi alla quale il soldato deve annullarsi [...]»), non c’è rimpianto per un passato fatto di eroismi, non c’è insoddisfazione per un presente ove le virtù eroiche non trovano posto; egli ricerca un ordine, un equilibrio tra uomo e macchina, consapevole del ruolo di assoluta importanza che la tecnica occupa, anzi rivolgendo la massima attenzione a quest’ultima, prevedendo già che nuovi comportamenti e nuove mansioni attenderanno l’uomo «prigioniero» della tecnica. Scopriamo cosi uno Jünger materialista che si «sforza di respingere tutte le illusioni dello spirito al fine di ritrovare il linguaggio dei fatti». Tuttavia l’uomo vuole restare «superiore» alla forza potenzialmente distruttiva della tecnica, egli può allora utilizzare quest’ultima come medium per «riaffermare la potenza dell’essere»; così il materialismo, che allontana dalla volontà dello scrittore qualunque superstizione idealista, diviene materia per operare personalissimi adattamenti: la realtà bellica si tramuta in evento estetico ove l’eroismo del singolo convive, in una continua ricerca d’armonia, con lo «strapotere» delle macchine. E poiché Die Maschine ist die in Stahl gegossene Intelligenz eines Volkes, le diverse forze della modernità amano procedere parallelamente.

In Stahlgewittern è un diario-romanzo pubblicato due anni dopo la fine della grande guerra. Come si è detto, costituisce la non breve ouverture di oltre ottant’anni di continua produzione letteraria; per anni la critica, a causa dei contenuti e delle intenzioni del giovane autore, la etichetterà come l’opera principe dell’anti-Remarque della cultura europea. Protagonista unico del libro è il Soldato-Jünger che sconosce le decisioni prese dai superiori e soprattutto le motivazioni di largo respiro strategico delle azioni intraprese. La guerra viene rappresentata in modo parziale attraverso gli occhi del protagonista, l’opera descrive dunque soltanto l’evento in quanto evento e non fatto storico che porta con sé, innumerevoli risvolti e significati. Kaempfer vi ha scorto una lettura degli eventi bellici di comodo, data cioè una tesi aprioristica, l’intreccio narrativo si svilupperebbe con l’intento unico di confermarla, omettendo i dati che con essa contrasterebbero. D’altra parte Prümm ha visto in questo approccio un filo conduttore dell’opera jüngeriana: l’accettazione della realtà in quanto oggetto «che si sviluppa indipendentemente dal singolo individuo». Di conseguenza secondo alcune tesi abbastanza diffuse, vero protagonista dell’opera non si rivelerebbe il soggetto scrivente, bensì un oggetto:

-L’immagine dei corpi straziati, vale a dire la cruda realtà dei morti giacenti sulla superficie delle campagne.

Ovvero uno spirito-guida:

-Il respiro della battaglia che aleggia intorno alle truppe.

In proposito, scrive Jünger:

«Cresciuti in tempi di sicurezza e tranquillità tutti sentivamo l’irresistibile attrattiva dell’incognito, il fascino dei grandi pericoli [...] la guerra ci avrebbe offerto grandezza, forza, dignità. Essa ci appariva azione da veri uomini [...]» Accenti forti, espressi anni prima in terra francese anche da F.T. Marinetti, accenti forti ma così poco inusuali nella storia delle moderne nazioni. Pertanto In Stahlgewittern, concesse al lettore poche battute iniziali, mostra senza perifrasi, le vere conseguenze dei conflitti moderni: primo inverno di guerra, Champagne, villaggio di Orainville, un bombardamento, tredici vittime, una strada arrossata da larghe chiazze di sangue e la morte violenta che rimescola i colori della natura. Segue il terribile resoconto di una forzata convivenza con la morte e con le azioni di belliche, ove «l’orrore della guerra viene estetizzato in incantesimo demonico e trasfigurato in veicolo estetico di accesso ad una sfera superiore [...]».

La vita comincia al crepuscolo in trincea e continua nelle buche scavate nel calcare e coperte di sterco. Si combatte una guerra di posizione che richiede un davvero difficile eroismo tanto da lasciare poco spazio alle illusioni: l’importante non è la potenza o la solidità delle trincee, ma il coraggio e l’efficienza degli uomini che le occupano. Bohrer sostiene che la rappresentazione dell’orrore in Ernst Jünger, serve a fornire della guerra una «immagine critica», vale a dire l’estetizzazione della stessa sarebbe il solo metodo in grado di darne un’idea reale. D’altro canto, la realtà medesima della guerra diviene realtà «superiore» poiché ogni valore e modello tradizionale è stato da lungo tempo dimenticato.

La scoperta della battaglia dei materiali è l’evento cardine nel processo di formazione delle idee jüngeriane: il valore individuale è annullato dallo strapotere della tecnica. La meccanizzazione della guerra e le conseguenze che ne discendono, sono comprese dal Soldato in tutta la loro forza epocale. È la controffensiva inglese sulla Somme a segnare la fine di un primo periodo di guerra e l’esordio di un nuovo tipo. Questo registra le battaglie dei materiali e subentra col suo gigantesco spiegamento di mezzi, al «tentativo di vincere la guerra con battaglie condotte alla vecchia maniera, tentativo inesorabilmente finito nella snervante guerra di posizione». Già Spengler aveva capito come il valore e il ruolo dell’individuo sarebbero stati ridotti dall’andamento della guerra moderna; ma dalla sua prospettiva Jünger continua ad insistere sulle capacità del soldato, sforzandosi di dare ai compiti del combattente un accento da molti considerato irresponsabile. Tuttavia l’ideale eroico prussiano che Jünger manifesta nel suo diario, sconta anch’esso una lettura di tipo “psicanalitico”. Si tratterebbe, a parere di alcuni, di un tentativo di fuga dal mondo reale, ove il Soldato è costretto ad affrontare gli echi del destino simboleggiati dal Trommelfeuer. L’eroismo diviene la necessità o il calcolo razionale di chi ha pochissimo spazio per combattere una propria guerra, e finisce col dissimulare azioni e comportamenti necessari dettati da tempi meccanici fuori da ogni controllo.

In tutto il resoconto c’è un’impronta magico-fiabesca, una coincidenza degli opposti, che unisce all’esplosione di forze elementari una continua ricerca della quiete cosmica: la battaglia viene sovente destorizzata e calata in una superficie mitica, al di sotto della quale la scrittura jüngeriana edifica possenti colonne, così si legge infatti: «La guerra aveva dato a questo paesaggio [davanti al canale di Saint Quentin] un’impronta eroica e malinconica». In mezzo ai colori della natura «anche un’anima semplice sente che la sua vita assume una profonda sicurezza e che la sua morte non è la fine».

Il tentativo di esorcizzare la guerra, minimizzando gli eventi tragici e costruendo a propria difesa un mondo magico, condurrebbe in tal modo Jünger alla creazione di figure irreali, è questo il caso dell’immagine classica dell’eroe immortale, immerso nella contemplazione di una natura amica. D’altra parte anche l’amatissima letteratura apparirebbe, e non di rado, come incredibile via di fuga. Scrive Jünger, durante un assalto:

«L’elmetto calato sulla fronte, mordevo il cannello della pipa, fissando la strada, dove le pietre lanciavano scintille all’urto con le schegge di ferro; tentai con successo di farmi filosoficamente coraggio. Stranissimi pensieri mi venivano alla mente. Mi preoccupai di un romanzo francese da quattro soldi, Le vautour de la Sierra, che mi era capitato fra le mani a Cambrai. Mormorai più volte una frase dell’Ariosto: “Una grande anima non ha timore della morte, in qualunque istante arrivi, purché sia gloriosa!” Ciò mi dava una specie di gradevole ebbrezza, simile a quella che si prova volando sull’altalena al luna park. Quando gli scoppi lasciarono un po’ in pace i nostri orecchi, udii accanto a me risuonare le note di una bella canzone: la Balena nera ad Ascalona; pensai tra me che il mio amico Kius era impazzito. A ciascuno il suo spleen».

La guerra diventa strumento di intima e eterna vittoria, epifania dell’arte. L’uomo Jünger, traghetta il guerriero in un kunstwald: i pensieri fanno da sfondo ad una tragedia che conosce un’eroica, ma mai sinistra, tristezza. Repentinamente lo sguardo indagatore si affaccia a scrutare gli abissi della guerra ove la passione umana trascolora all’urto di invincibili forze ctonie, leggiamo: «È una sensazione terribile quella che vi si insinua nell’animo quando vi trovate ad attraversare, in piena notte, una posizione sconosciuta, anche se il fuoco non è particolarmente nutrito; l’occhio e l’orecchio del soldato tra le pareti minacciose della trincea sono messe in allarme dai fatti più insignificanti: tutto è freddo e repellente come in un mondo maledetto». Il mondo maledetto è forse soltanto l’arena della tecnica e delle tecniche di guerra? Osservato dalla trincea, il Welt jüngeriano assume i contorni della fabbrica. Compiuto da schiavi-stregoni, l’apprendistato diventa giorno dopo giorno, utilizzo produttivo della paura: la fusione dei materiali in forze onnipotenti.

Lo spirito-guida, la battaglia che non concede vere soste, non cessa di essere protagonista: quando nei primi mesi del 1918, si parla di una immensa offensiva sull’intero fronte occidentale, annota Jünger: «La battaglia finale, l’ultimo assalto sembravano ormai arrivati, lì si gettava sulla bilancia il destino di due interi popoli; si decideva l’avvenire del mondo». La micro-storia di alcuni villaggi di confine, assurge a Macro-storia, la tragedia a Schicksal di un’epoca. Decisione e azione si trasmutano nel faro ideologico degli anni a venire. La guerra indagata con sguardo lungimirante sarà prologo e continuazione di una ventennale politica europea. In definitiva: le aspre reazioni emotive (i «lati oscuri» jüngeriani) emerse dall’animo umano quali effetti avranno sulla ripresa della quotidianità nel dopoguerra? La «rivincita del brutale sul sentimentale» come ha scritto Decombis, quali effetti avrà sugli anni a venire? L’idea che rimane è che la guerra abbia riscoperto ciò che persiste immutabile nell’animo umano: gli istinti primitivi, allo stesso modo il fuoco ha rimosso quella sottile vernice che ricopriva il fondo della natura umana. Nel corso di quattro indimenticabili anni essa ha strappato la maschera della civiltà permettendo all’uomo di apparire nella sua armonica totalità.

El Reich neoconservador de Edgar J. Jung

EL REICH NEOCONSERVADOR DE EDGAR J. JUNG

Alexander Jacob
 
 
El movimiento neo-conservador en la República de Weimar fue una empresa política elitista que pretendía devolver a Alemania a su mundo espiritual original y posición como líder del Sacro Imperio Romano-Germánico medieval de la nación alemana. Constituido por intelectuales como Oswald Spengler, Arthur Moeller van den Bruck, y Edgar Julius Jung, los neo-conservadores estaban destinados a destruir la situación socio-política y ética de la República de Weimar liberal que se había impuesto a Alemania por sus enemigos. La mayoría de los neo-conservadores eran miembros de los clubes de élite de la época, el Juniklub, fundada por Moeller van den Bruck, y su sucesor, el Herrenklub, y se oponían tanto a todos los populistas de los sistemas democráticos liberales.
De los neo-conservadores, tal vez el más influyente teórico y activista político fue, sin duda, el abogado de Munich, Edgar Julio Jung. Jung no era solamente un pensador y propagandista, sino también un político activo en la República de Weimar, después de haber comenzado su carrera política al mismo tiempo que su práctica jurídica poco después de la primera Guerra Mundial. Jung nació en 1894 en el Palatinado bávaro y sirvió como voluntario en la guerra. Después de la guerra, se unió a una unidad del Cuerpo Libre y participó en la liberación de Munich de la República Soviética de Baviera en la primavera de 1919. Antes de la ocupación franco-belga del Ruhr (1923-25), Jung había terminado su doctorado en Derecho y comenzó la práctica en Zweibrücken. Sus actividades políticas durante este tiempo incluyen la organización de la resistencia y de las actividades terroristas contra la ocupación del Ruhr, formando parte del directorio del Deutsche Volkspartei.
Después de la crisis del Ruhr, Jung se estableció como abogado en Munich, donde vivió hasta su muerte. Jung adquirió fama a través de su política de varios escritos en el Deutsche Rundschau, y su tratado político más importante, Die Herrschaft der Minderwertigen (segunda edición, 1929, 30), que, según Jean Neuhrohr, fue considerado como una especie de "biblia del neo- conservadurismo".
En enero de 1930, Jung se unió a la Volkskonservative Vereinigung, un partido de extrema derecha formado inicialmente por doce diputados del Reichstag, que se habían separado de la Volkspartei Deutschnationale dirigido por Alfred Hugenberg. La actitud de Jung frente al Partido Socialista Nacional de Hitler era tibia, a pesar de su admiración por las "energías positivas" del movimiento. Hitler se había postulado a la nación como un ídolo para hipnotizar a las masas ignorantes, mientras que un cierto movimiento conservador trataba de elevar a las masas mediante la invocación de la santificación de su liderazgo. Los partidos de extrema derecha sin embargo estaban demasiado divididos para formar una alternativa sólida a las fuerzas nacionalistas, especialmente después de una segunda secesión de la DNV, que creó otro partido escindido, el Volkspartei Konservative.
El intento de Jung para imponer su propia marca de 'conservadurismo revolucionario' en la VKV se reunió con poco éxito, y cuando la DNV y KVP unieron fuerzas en diciembre de 1930 la dirección de la nueva coalición fue entregada no a Jung, pero sí a Pablo Lejeune-Jung. En enero del año siguiente, Jung y algunos de los conservadores de Baviera formaron la «Bewegung zu Volkskonservative Bewegung deutscher 'como una política de origen"para todos aquellos que, al margen de las consignas y las fórmulas mágicas de la vida política partidaria, estaban dispuestos a mirar los problemas políticos contemporáneos desde la perspectiva exclusiva de la misión histórica del pueblo alemán".
Sin embargo, la negativa de Jung a cooperar con los conservadores más moderados como Heinrich Brüning y los recursos de Treviranus, a fin de promover su propia marca de conservadurismo revolucionario, no ayudó a su movimiento, que había perdido casi toda la fuerza política en la primavera de 1931. La carencia de entusiasmo de Jung por el canciller Brüning fue explicada por él en un borrador de una carta a Pechel de fecha 14 de agosto 1931:
"Sólo cuando el gobierno está en camino de volver al concepto de autoridad y se libera de la esterilidad del parlamentarismo alemán, puede que estas fuerzas se pongan al servicio de la nación en su conjunto. En la reorganización del gabinete, el objetivo debe ser el abandono total de su base del partido. No es la aprobación de las partes, pero la práctica y la competencia profesional deben determinar la selección de aquellos a quienes usted, canciller respetado, tendrán que ayudarle en el dominio de estas tareas difíciles."
Cuando Hitler y el Partido Nacional Socialista obtuveron las victorias masivas en la región y las elecciones estatales del 24 de abril de 1932, Jung dio la bienvenida a la realidad jurídica de la adhesión de los nazis al poder. Porque, aunque Jung estaba temeroso de las tendencias extremistas de los nazis, esperaba que con este proceso legal, se evitaría la debacle de un ataque forzoso a la voluntad política mayoritaria. Además, la marea de entusiasmo nazi en el país era imparable y la alianza conservadora se vió impotente cuando el NSDAP obtuvo una resonante victoria en las elecciones del Reichstag de noviembre de 1932. Jung quedó naturalmente sorprendido cuando Hitler astutamente unió fuerzas con el conservador Von Papen para formar un gobierno de coalición en enero de 1933. Jung siempre mantuvo una actitud de superioridad con el populismo de Hitler, y creía que, puesto que los conservadores eran "responsables de que este hombre llegase al poder, ahora tenemos que deshacernos de él".
Así que, cuando Franz von Papen fue nombrado vicecanciller de Brüning, en 1933, Jung escribió a Papen que ofrecía sus servicios como escritor de discursos y asesor intelectual. Por consejo de su estrecho colaborador, Hans Haumann, Papen invitó a Jung a unirse con su gobierno en una organización con capacidad de asesoramiento. La intención de Jung en el servicio a la administración de Papen fue "para proteger [a Papen] con una pared de los conservadores" que proporcionaría el rector un enriquecimiento moral necesario frente a un rápido ascenso de Hitler al poder. Con la esperanza de frenar el extremismo de Hitler con su ideología conservadora, Jung se destacó como redactor de los discursos para Papen, cuando éste, Hugenberg y Seldte Franz de la Stalhelm se unieron para formar el conservador Kampfront Schwarz-Rot-Weiss. Sus discursos fueron diseñados para impresionar a la nueva coalición de fuerzas de extrema derecha con un sello conservador en lugar del extremista nazi. Jung defendió el gobierno de Papen contra los nazis "de las acusaciones de reaccionarios”, haciendo hincapié en el carácter revolucionario de la nueva derecha y poniendo de relieve lo espiritual y los defectos ideológicos de Hitler y su partido.
Mientras Papen trataba de luchar contra el movimiento nazi desde un punto de vista conservador, Jung escribió una crítica del fenómeno nazi en su Sinndeutung der deutschen Revolución (1933), en el que reiteró sus acusaciones de neoliberalismo y democratismo, al tiempo que destacaba que "el objetivo de la nacional-revolución tiene que ser la despolitización de las masas y su exclusión de la dirección del Estado".
Jung llama a un nuevo estado basado en la religión y en el mundo visto universalmente. No las masas, sino una nueva nobleza, o una élite auto-consciente, debe informar al nuevo gobierno, y el cristianismo debe ser la fuerza moral en el estado. La propia sociedad debe ser organizada jerárquicamente y más allá de los límites del nacionalismo, a pesar de que debe basarse en "una base völkisch indestructible”. La referencia a ir más allá de los límites del nacionalismo fue, por supuesto, motivada por su deseo de restituir un Reich federalista europeo. El conservadurismo de Jung se distinguió también por su llamamiento para la creación de una monarquía electiva y el nombramiento de un regente imperial como el director espiritual del nuevo Reich europeo-germánico. Sin embargo, tanto el proyecto de Reich como el énfasis puesto en las asociaciones völkisch, se llevaron a cabo de forma más dramática y temeraria por Hitler que por cualquiera de los líderes conservadores.
La oposición de Jung a Hitler tomó una forma más concreta a principios de 1934, cuando emprendió numerosos viajes por toda Alemania para desarrollar una red de simpatizantes conservadores que ayudasen a derrocar el régimen de Hitler. El propio Papen no estaba al tanto de los esfuerzos de Jung en esta dirección y la asistencia de Jung vino de Herbert von Bose, Günther von Tschirschky y Ketteler. Jung incluso contemplaba personalmente asesinar a Hitler, a pesar de los temores de que esta acción drástica podría descalificarlo para asumir un papel protagonista en la nueva dirección. Después adoptó la alternativa académica de escribir otro discurso para Papen, última entrega que se desarrolló en la Universidad de Marburg el 17 de junio de 1934. Los repetidos ataques sobre la ilegitimidad del régimen de Hitler y los fracasos políticos de este régimen en este discurso, obligaron a Hitler, bajo el consejo de Goering, Himmler y Heydrich, su asistente, para deshacerse de la amenaza planteada por Jung. Así, junto con Röhm y los oficiales SA, que se había convertido en rebeldes para los nazis, Jung perdió la vida en la "Noche de los cuchillos largos", el 30 de junio de 1934.
Retrospectivamente, podemos considerar la carrera política de Jung como ambivalente. Motivado por un lado, por su filosofía y la visión de un Reich alemán neo-medieval que debía destruir el sistema parlamentario nocivo de los liberales, la oposición de Jung a Hitler y su negativa a comprometerse con sus compañeros conservadores de la derecha fueron, claramente, impulsados por su ambición personal y, tal vez incluso, por la envidia de los éxitos políticos de Hitler. De hecho, el proyecto conservador propuesto por Jung difería de un extremista como Hitler sólo en grado y no en especie. La comunidad en que Jung deseaba convertir al pueblo alemán, en realidad se presentaba, de una forma similar a la diseñada por de Hitler, como un gigantesco movimiento de masas. Por supuesto, este populismo carecía de la sustancia espiritual que Jung había estipulado para la comunidad, pero los nazis, al menos, podían argumentar que fueron ellos los que sentaron las bases völkisch necesarias para una cultura espiritual uniforme. Además, la dramática política extranjera de Hitler, después de la muerte de Jung, en realidad se parecía demasiado al imperialismo cultural propuesto por Jung para el Reich alemán que debía liderar al resto de Europa.

mardi, 23 novembre 2010

F. Sieburg: "Die Lust am Untergang"

Friedrich Sieburg: „Die Lust am Untergang“ – eine Rezension

Ellen KOSITZA

Ex: http://www.sezession.de/

Friedrich Sieburg: Die Lust am Untergang. Selbstgespräche auf Bundesebene.
Mit einem Vorwort und einem Nachwort von Thea Dorn
Frankfurt a.M.: Eichborn 2010. 418 S., 32 €

Sieburg.jpgFriedrich Sieburg (1893–1964) war der Edelstein, ja: ein Solitär der nichtlinken Nachkriegspublizistik. Wegen seiner unklaren Rolle in der NS-Zeit war er bis 1948 mit einem Publikationsverbot belegt. Wolf Jobst Siedler titulierte den konservativen Essayisten und Literaturkritiker der Nachkriegszeit einmal als »linksschreibenden Rechten«. Sieburg war ein brillanter Stilist, seine Feder und Gedanken von einer gleichsam elastischen Gespanntheit; polternde Polemik war ebensowenig seine Sache wie der langweilig-dogmatische Duktus herkömmlicher Konservativer. Weniger aus Sturheit denn mit würdiger Gelassenheit pflegte er sich zwischen jene Stühle zu setzen, die die gesellschaftliche Nachkriegsordnung bereithielt. Die großen Namen seiner Zeit zogen teils den Hut vor seinem Scharfsinn (Thomas Mann schrieb in seinem Tagebuch, Die Lust am Untergang erinnere ihn an seine Betrachtungen eines Unpolitischen), andere zahlten ihm harsch zurück, was er austeilte: Kein anderer Literaturkritiker ging so erbarmungslos wie Sieburg mit den Vertretern der Gruppe 47 ins Gericht.

SieburgLust.jpgMan mag nicht glauben, daß 56 Jahre seit der Erstveröffentlichung des vorliegenden Bandes vergangen sind! Die Fragen, denen Sieburg sich hier in neun Kapiteln (etwa »Die Kunst, Deutscher zu sein«, »Vom Menschen zum Endverbraucher«) widmet, lesen sich nicht als Rückblick auf Gefechte von gestern. Sie sind noch ebensogut unsere Themen: Identitätssuche, Vergangenheitsbewältigung, Konsumwahn, die Grenze zwischen Privatheit und Öffentlichkeit. Auch wo seine Angelegenheiten einmal der unmittelbaren Aktualität entbehren – etwa in seiner bemerkenswerten Replik auf Curzio Malaparte (d.i. K.E. Suckert) oder in seinen Einlassungen zum Verlust der Ostgebiete – nickt man staunend. Ohne Twitter oder Ryan Air gekannt zu haben, spottet Sieburg über »das Management des Vergnügens«, die »Mechanisierung der Freizeit«. Er meinte damit – wie bescheiden aus heutiger Warte! – »Betriebsausflüge an den Comer See« und Klassenfahrten in die Alpen. »Der Vorschlag, die Kinder sollten an der Nidda Blumen suchen, würde heute auf allen Seiten große Heiterkeit hervorrufen.« Für Sieburg waren die Deutschen »ein Volk ohne Mitte«: »Im Deutschen, so glaubte die Welt gestern noch, ist mehr Explosivstoff angehäuft als in jedem anderen Erdenbewohner. Hat sich diese Ansicht geändert, sind beim Anblick des fleißigen und lammfrommen Bundesdeutschen, der sogar den Karneval straff organisiert und wirtschaftsbewußt dem Konsum dienstbar macht, der das Wort Europa dauernd im Mund führt, (…) den kein Aufmarsch mit Fahnen mehr aus seinem Wochenendhaus, seinem Faltboot und Volkswagen herauslocken kann, der nur noch zu den Vertretern versunkener Fürstenhäuser und zu Filmstars aufschaut, der einen harmonischen Bund zwischen Preußentum und Nackenfett eingegangen ist, (…) der vom Golf von Neapel bis zum Nordkap die schnellsten Wagen fährt, sich in Capri bräunen läßt (…), der sich aus Ordnungssinn mit der abstrakten Kunst und dem Nihilismus beschäftigt – sind, so frage ich, beim Anblick dieses Musterknaben, der sich in der Schule der Demokratie zum Primus aufarbeitet, alle Ängste und mißtrauische Befürchtungen verschwunden? Ich antworte, nein.«
Sieburg, der Frankophile, liebte seine Heimat und litt an ihr, an diesem Volk, das sich nun in einer

seiburg2.jpgMüdigkeit und Geschichtslosigkeit zeige, »die mit einer nie dagewesenen Nüchternheit« gepaart sei. »Nur der Deutsche schwärzt seinen Landsmann bei Fremden an, nur der Deutsche verständigt sich lieber mit einem Exoten als mit einem politischen Gegner eigenen Stammes (…), nur der Deutsche verleugnet Flagge, Hymne und Staatsform des Mutterlandes vor Dritten.« Als »dümmstes Schlagwort« seiner Zeit erschien dem Publizisten der schon damals opportune Vorwurf, »restaurative Tendenzen« zu befördern. Alles Große, Geniale, das Heldenhafte ohnehin, dessen die Deutschen einst fähig waren, werde nun verhöhnt und gegeißelt unter dem Vorwand, »daß die alten Zeiten nicht wiederkommen dürfen«. Ja, und wie furchtbar war auch der »deutsche Spießer!« Allerdings, so Sieburg, sei zu befürchten, daß der Spießer in neuem Gewand, nämlich mit »heraushängendem Hemd« nach US-Vorbild wiedergekehrt sei, und daß die »Vorurteilslosigkeit in der Kleidung, im Umgang mit dem anderen Geschlecht und den Nerven der Mitmenschen nicht eine höhere sittliche Freiheit und einen souveränen Geist« mit sich führe.

Die Krimiphilosophin und TVTalkerin Thea Dorn durfte man bislang für eine wohl kluge, aber strikt den Kategorien aktueller Meinungsmoden hingegebene Zeitgenossin halten. Nun hat sie uns mit geradezu schwärmerischer Geste – Vor- und Nachwort, vereinzelt nur gespickt mit zeitgeistigen Kotaus, stammen aus ihrer Feder – den nahezu radikalen Widerborst Sieburg wiederentdeckt. Ein Glücksfall!

samedi, 13 novembre 2010

Por qué somos jovenes conservadores: a modo de manifiesto

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Por qué somos jovenes conservadores: a modo de manifiesto

 

 por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/

Hay lectores que leen este blog y se entusiasman por sus temas, pero luego se desaniman por culpa de los significados comunes y corrientes que escuchan del término conservador: un derechista, viejo, reaccionario, facho, burgués, liberal, ultramontano, pro-sistema, extremista, pasadista, filo-monárquico, ultra-derecha, anti-moderno, derechista “cavernario”, uno que “no quiere cambiar las cosas”, un defensor del status quo, del mundo de los “adultos”, de la iglesia, uno que le gusta la “mano dura”, un plebiscitario, un nacionalista, decisionista, un schmittiano, uno que se pasó “a lado oscuro de la fuerza” (que tal boludez), un “lobo de arriba”, uno lacayo de los “poderes fácticos”, etc, etc, etc. Dejo a la fantasía del lector realizar todas las posibles combinaciones que se usen en su país.

Estas etiquetas hábilmente utilizadas por anquilosados ideólogos de alcoba, llevan a nuestro lector a la duda, logrando que abandone ese primer entusiasmo que descubrió inicialmente. Nuestro lector termina claudicando espiritualmente frente a las sirenas del progresivismo, lo neo-, lo post-, lo “revolucionario”, lo “anti-sistema”, la “contra-cultura”, “la emancipación”, “el feminismo igualitario”, lo “glocal”, lo anti-. Todo lo que encuentre a la mano y le permita decir No, termina seduciéndolo. El primer prurito gratuito que encuentra es pasar por ateo. Al parecer, todas esas sirenas parecen ser las únicas formas que tienen los más jóvenes para hacerse aceptar por los propios coetáneos, para diferenciarse del grupo o para mendigar reconocimiento (a esto lo llaman con un nombre a efecto “militancia”, “compromiso”). Si colocamos juntos a todos los desencantados por igual, la derrota generacional es tan general y profunda a nivel espiritual que es típico encontrar una masa descarriada de escépticos, ateos, dandys libertarios, anarquista á la Ciorán, Gramscianos 2.0, de “rebeldes anti-sistema”, todos aglomerados al mejor postor. Muy raro es encontrar a un sólo joven de 20 – 25 años que se declare joven-conservador, de nueva derecha y sin pelos en la lengua, sin temor. “Soy de derecha y soy de sociales” parece ser la áurea consigna de aquellos universitarios solitarios que se resisten a vender su alma al prurito colectivo del momento, al novismo, al automatismo del Anti-. Ser un “libertario”, un “anarquista” un “post-moderno”, un “filósofo-pop”, querer pasar ahora, en tiempos de religión civil y catequismo liberal, por ser “menos” comunista, menos “utópico” y más “de neo-izquierda”, querer pasar siendo, en una palabra, un radical chic, se ha convertido en un automatismo, en una cuestión antropológica (Umberto Eco dixit).

La vieja derecha

En el caso de las posturas de vieja derecha, el vicio y las sirenas no son muy diferentes: las sirenas en este caso tienen que ver con la “tradición”, la “Überlieferung”, los caprichos de Sissí y Barbarossa, la capa del torero y la espada. En una palabra, el viejo derechista en LA cultiva el abolengo pseudo-ibérico en privado y el dandismo criollo en público. Peor aún si a todo esto se añade el anhelar un abolengo europeo, pues todo resulta tres veces lejano: de espíritu, de carácter y de distancia. En el peor de los casos, la sirena para el viejo derechista en LA es el entusiasmo por la “mano dura” o la nostalgia pasadista por viejos experimentos autoritarios. Para el viejo conservador en LA, es literalmente imposible ser conservador sin ser católico. Si las jóvenes generaciones tienen todos esos prejuicios mencionados al inicio sobre lo que es ser conservador, se debe en gran parte a esta miopía confesional de la vieja derecha latinoamericana autoritaria y ultramontana. Debido a esta miopía de los padres, las nuevas generaciones – no pudiendo negar su propia fe – tienen que crearse un Dios mundano a medida, un deísmo a medida, una fe a medida, una curiosidad por lo trascendente o lo religioso (o su rechazo, que vincula por igual) a medida de la propia subjetividad e intimidad. Hasta la primera rebeldía de estas generaciones a la segunda socialización (las instituciones, la ciudadanía) es menos que un remedo de las aporías y sinsabores de la primera rebeldía identitaria hacia los padres.  Gracias a esta intolerancia católico-confesional en LA, el joven termina abrazando, primero, el vicio meramente reactivo y gratuito del ateismo, para pasar luego al anti-modelo religioso por antonomasia: el mito político-romántico, (neo-) marxista o el dandismo del mito libertario-anarquista. Entre un polo viciado y el otro, el modesto, el discreto, encuentra el ocasionalismo liberal, el patriotismo humanista. Es suficiente que el jovencito ateo, el neo-izquierdista, pasen apenas los treinta años para descubrirse poco a poco un liberal “moderado”, un socialdemócrata blando, un liberal universalista astuto y movedizo (Vargas Llosa es el bio-pic por antonomasia). A partir de los treinta o se es un apocalíptico o un integrado (Eco). Dos mundos generacionales en LA, padres teístas e hijos deístas, que terminan siendo exactamente dos caras precisas de la misma moneda.

Después de todo, tanto en el caso del radicalismo chic de izquierda como en el dandismo criollo de vieja derecha, se trata de mendigar diferencia, definir estilos, pedir reconocimiento o fugar hacía la ideología culturológica de la otredad. ¿por qué la dureza? porque en sentido estrictamente politológico e político-sociológico, la dicotomía izquierda y derecha ya no explica nada del fenómeno de lo político. Decir “nueva derecha”, es más bien limes identitario, un inicio, una orientación para el lector atento. Frente a todo lo afirmado, nuestro lector se vuelve a preguntar ¿por qué debería ser, entonces, joven conservador? En un post anterior formulé rápidamente algunas ideas sobre el significado del ser conservador, del espíritu conservador, del ser joven conservador. Retomo lo escrito en aquel post. Quien leyó con atención, notó que no se trató de introducir una pauta sobre el pensamiento conservador como doctrina político-filosófica (se hará en su momento). Se trató simplemente de compartir una regla y un símbolo vivo, una bandera en alto, que represente el ser conservador como carácter. A esa regla, a esa bandera en alto, la definiremos con la siguiente imagen:

El espíritu conservador es la pura y simple admiración alrededor de nuestra propia finitud. Es aquella admiración permanente que conserva, en el tiempo, los frutos de aquella experiencia finita. El espíritu conservador cosecha el símbolo anunciado en ese evento y lo conserva en el íntimo misterio de su revés perpetuo, hace de aquel revés finalmente su piedad y su entusiasmo, su regla. El joven conservador sabe que la fuga permanente hacia “lo nuevo”, hacia el “mañana”, no es menos ingenua de esconderse detrás de un símbolo viejo del ayer, de un símbolo muerto. Solo un mito vivo puede pedirle que vuelva la mirada hacia el pasado, nunca un mito muerto. Porque solo el Ahora (Nun) es guía para el conservador, sólo ante el Ahora se postra y solo en el Ahora escrito claudica. Si alguna vez su corazón temblará de temor, dará dos pasos hacia atrás para observar mejor cómo crece el horror o la belleza de aquella verdad que lo espera al borde de sí mismo. Nunca fugará hacia el pasado muerto y sus fantasmas, nunca hacia un mañana innecesario. El tiempo del conservador es tiempo kairológico. El joven conservador es un peregrino del absoluto.

El espíritu conservador es un espíritu íntimamente joven, jungkonservativ y joven Romántico por antonomasia. A diferencia del aburridísimo (muchas veces incompetente) analista ideológico que no distingue entre conceptos básicos como poder y autoridad, el joven conservador es una alma silenciosa, sabe donde se oculta el poder, conoce la miseria del necesitado (no la hace parte de su identidad ideológica). El joven conservador no teme expresar sus sentimientos, su subjetividad, cuando es un símbolo, y no los fantasmas del intelecto práctico o racional, a guiar su Ahora. El pensamiento joven-conservador resulta ser, entonces, finalmente joven, porque es simplemente honorado por todos aquellos retos que la vida misma le exige y exalta. En este sentido, el joven conservador o la joven conservadora no claudican jamás ante la finitud de la existencia, sabiéndola inevitable: ambos conservan lo vivido en ella con suma admiración, haciendo de aquella experiencia un fruto reflexivo e intelectivo, pero también un estandarte silencioso, entre un Ahora y otro, entre un abismo y otro. Harto de pastar abismos, el pensamiento del joven-conservador es un pensamiento necesariamente fuerte, no por esto indelicado, sin virtud, sin gracia.

Descubrir el admirar jungkonservativ

Expresado mejor con las últimas palabras de una joven de 22 años, poetisa de origen francés, una joven conservadora y radical-aristocrática del Siglo XVIII, decapitada por rebelde un día de aquelarre, cerca del cementerio de Montrouge, en París. Antes de morir, escribió exaltada y visionaria lo siguiente. Se recupere el entusiasmo juvenil por la vida, el símbolo, más allá de la imagen, el tono o la metáfora (paráfrasis nuestra a partir de un manuscrito apócrifo):

Ser joven conservadora, radical, extremista, es dejarse atravesar por el viento, dejar que la existencia raye con los márgenes de nuestra propia libertad, que lo más intenso y descabellado nos escoga en yugo para siempre. Es sentir con la piel en flor los límites del ser al punto de toparse cara a cara con nuestros más íntimos límites, con la ruptura fatal que nos desnuda la piel. Mi canto es el canto ebrio, la gloria puntual, la llamada de la esclavitud más dura de lo justo y necesario, el espejo nuestro en el castigo esperado, el yugo que invade todo desde el cariño perpetuo. Que nuestros enemigos nos lancen ya, desde lo más alto y con el más íntimo desprecio, la sucia moneda de cobre con la mirada más rencorosa, siendo nosotros mismos la moneda, la mano, el desprecio, la súplica, el enemigo, la altura, la SED, el perdón. Porque salvaje e indómito es aquel Dios que enciende toda locura clarividente en nuestra llama VIVA, en nuestro AHORA, en nuestro mirar perpetuo, en nuestro admirar sincero; indómito es aquel Dios extraño que enciende exacto y puntual, de carmesí inapagable, nuestros corazón, deshojándose por esto, en su osadía, de rubor humano.

¡Desde la más ínfima ilusión de Libertad en cada ser humano individual, en cada albor que sopla centelleante sobre nosotros, por obra de la conciencia servil al borde de su próxima y amada oscuridad, se restaurará la legítima esclavitud del Espíritu en coro unánime y con la máxima y cruda imposición, porque lo más BELLO, lo más esplendoroso, lo más tierno, lo más sincero, OS perseguirá puntualmente a azotes sobre vuestro miserable JUBÓN de piel, curtido de tiempo…! Antes de recibir vuestro castigo humano, antes de entregar mi cuerpo a la oscuridad más sublime, yo les impogo a ustedes mi PERDÓN. Mi odio no está hecho de la medida de vuestra mundana cobardía. La gracia del acto puro en el perdón se desparramará en su luz sobre todos vuestros sucios cráneos y el yugo restaurará la legítima esclavitud del Espíritu, aquella que posee sin ninguna miserable liberalidad, ninguna, fuera de la oscura y amorosa coacción del Ahora, fuera de la corrupción de los principios en el ayer y el mañana! ¡La cima crecerá más aún por vosotros, seres que saben únicamente crecer horizontalmente, en VIL cópula; cada uno de ustedes seguirá en silencio, desde la volición unánime del Dios que llega del viento y nunca desde el desierto infame, la fe humana, aquella que será arreada por última vez a besos, a pesar de las guerras que vendrán después de mí. Se escuchará cantando finalmente, en procesión, mi nombre oculto!

Si el Dios se mantiene vivo, de pie, con la cabeza en alto, con el pie fijo y certero sobre la cerviz infame del Dios que viene del desierto, conservando intacto su dignidad celeste en el Ahora, es porque respira en el aire la profunda certeza de que un sólo joven conservador, UNO solo, y una sola joven conservadora, UNA sola, dignos de él y sólo de ÉL, existen.

Quien de antemano niega la grandeza y la capacidad del Dios, la inconmensurabilidad de la belleza que él reviste cuando decide arbitrariamente posarse en una sola hebra de mis cabellos al viento, en los labios del extraño o en la mirada misma de quien me recordará mañana, le cava una tumba al propio corazón: le forja un hoyo negro donde vivirá agonizando de Amor ausente. La fe y la voluntad en armonía perfecta mueven montañas inamovibles, derriban murallas y desconocen de todo límite, y por virtud del viento y del rubor, son omnipotentes. Porque aquel que se niega a dar camino a sus miserables pasos, se niega a soñar. Aquel que, en cambio, no aprende a seguir los pasos del Dios, se niega a ser el SUEÑO mismo. Solo el viento en el ahora es el camino, donde no mora Dios alguno.

El cielo está repleto de estrellas y cualquier zarza común cae ardiente llena de Dios hacia la tierra; y sólo aquel que ya ve llegar el fuego lento sobre la propia piel desnuda, se descalza completamente de Amor; los demás se sientan en torno a las cenizas del último corazón en llamas y arrancan contritos, en espera, las moras.

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imágenes:

Imagen: John Willian Waterhouse, Psyche Opening the Golden Box.

lundi, 08 novembre 2010

Fidus: c'est ainsi que se voyait la jeunesse

Michael MORGENSTERN :

Fidus : c’est ainsi que se voyait la jeunesse

 

fidus45.jpg« Ce qui s’avère nécessaire pour nous, maintenant, ce n’est pas encore davantage d’artificialité ou de luxe technique, mais de nous habituer à éprouver à nouveau de la joie face à notre authenticité spirituelle et à la naturalité de nos corps ; oui, vraiment, nous avons besoin d’apprendre à tolérer la beauté naturelle, du moins dans le domaine de l’art », écrivait Fidus dans le volume édité par Eugen Diederichs pour donner suite de la fameuse rencontre organisée par le mouvement de jeunesse allemand sur le sommet du Hoher Meissner en 1913. Le motif qui l’avait incité à écrire ces lignes fut l’exposition d’un dessin qu’il avait réalisé à l’occasion de cette réunion des jeunes du Wandervogel, un dessin qui s’intitulait « Hohe Wacht » et qui représentait de jeunes hommes nus portant l’épée et aux pieds desquels se trouvaient couchées des jeunes filles, également nues. L’image avait causé un scandale. Plus tard, un dessin de Fidus deviendra l’image culte et le symbole du mouvement de jeunesse ; il était intitulé « Lichtgebet », « Prière à la Lumière ». Sur un rocher isolé, un jeune homme nu étendait les bras et le torse vers le soleil, le visage empreint de nostalgie.

 

Fidus, un artiste célèbre de l’Art Nouveau (Jugendstil) et l’interprète graphique de la « Réforme de la Vie » (Lebensreform) et du néopaganisme, était né sous le nom de Hugo Höppener à Lübeck en 1868, dans le foyer d’un pâtissier. Ses parents l’envoyèrent à l’Académie des Beaux-Arts de Munich, où, très rapidement, il se lia d’amitié avec un peintre excentrique, apôtre d’une nouvelle adhésion à la nature, Karl-Wilhelm Diefenbach. Celui-ci, accompagné de quelques-uns de ses élèves, se retirait régulièrement dans une ancienne carrière abandonnée sur une rive de l’Isar pour y vivre selon les  principes du mouvement « Réforme de la Vie ». Diefenbach pratiquait le naturisme, ce qui alerta les autorités bavaroises qui, très vite, firent condamner le fauteur de scandale à la prison. Höppener accepta de suivre son maître en prison, ce qui induisit Diefenbach à le surnommer « Fidus », le Fidèle.

 

Plus tard, revenu à Berlin, il prendra pour nom d’artiste le surnom que lui avait attribué son maître. Dans la capitale prussienne, il fut d’abord l’illustrateur d’une revue théosophique, Sphinx, ce qui lui permit d’accéder assez vite à la bohème artistique et littéraire berlinoise. Dès ce moment, on le sollicita constamment pour illustrer des livres et des revues ; il travailla aussi pour la revue satirique Simplizissimus puis pour la revue munichoise Jugend, créée en 1896. Cette revue doit son nom au Jugendstil, au départ terme injurieux pour désigner les nouvelles tendances en art. Contrairement au naturalisme, alors en vogue, le Jugendstil voulait inaugurer un style inspiré d’un monde posé comme harmonieux et empreint de spiritualité, que l’on retrouve dans l’univers onirique, dans les contes, dans les souvenirs d’enfance ; et inspiré aussi d’une nostalgie de la plénitude. Une ornementation végétale devait symboliser le refus du matérialisme banal de la société industrielle. Suite à une cure végétarienne de blé égrugé, qui le débarrassa d’une tumeur qui le faisait souffrir depuis son enfance, Fidus/Höppener devint un végétarien convaincu, ouvert, de surcroît, à toutes les médecines « alternatives ».

 

Il cherchait une synthèse entre l’art et la religion et se sentait comme le précurseur d’une nouvelle culture religieuse de la beauté qui entendait retrouver le sublime et le mystérieux. Cela fit de lui un visionnaire qui s’exprima en ébauchant des statues pour autels et des plans pour des halls festifs monumentaux (qui ne furent jamais construits). A ses côtés, dans cette quête, on trouve les frères Hart, Bruno Wille et Wilhelm Bölsche du cercle de Friedrichshagen, avec lesquels il fonda le « Bund Giordano Bruno », une communauté spirituelle et religieuse. En 1907, Fidus se fit construire une maison avec atelier dans le quartier des artistes « réformateurs » de Schönblick à Woltersdorf près de Berlin. Plus tard, une bâtisse supplémentaire s’ajouta à cet atelier, pour y abriter sa famille ; elle comptait également plusieurs chambres d’amis. Bien vite, cette maison devint le centre d’un renouveau religieux et un lieu de pèlerinage pour Wandervögel, Réformateurs de la Vie, Adorateurs de la Lumière et bouddhistes, qui voyaient en Fidus leur gourou. Le maître créa alors le « Bund de Saint Georges », nommé d’après le fils d’un pasteur de Magdebourg qui, après une cure de jeûne, était décédé à Woltersdorf. Fidus flanqua ce Bund d’une maison d’édition du même nom pour éditer et diffuser ses dessins, tableaux, impressions diverses et cartes postales. Dans le commerce des arts établis, le Jugendstil fut éclipsé par l’expressionisme et le dadaïsme après la première guerre mondiale.

 

fidus1.jpgLes revenus générés par cette activité éditoriale demeurèrent assez sporadiques, ce qui obligea les habitants de la Maison Fidus, auxquels s’était jointe la femme écrivain du mouvement de jeunesse, Gertrud Prellwitz, à adopter un mode de vie très spartiate. L’avènement du national-socialisme ne changea pas grand chose à leur situation. Fidus avait certes placé quelque espoir en Adolf Hitler parce que celui-ci était végétarien et abstinent, voulait que les Allemands se penchent à nouveau sur leurs racines éparses, mais cet espoir se mua en amère déception. La politique culturelle nationale-socialiste refusa de reconnaître la pertinence des visions des ermites de Woltersdorf et stigmatisa « les héros solaires éthérés » de Fidus comme une expression de l’ « art dégénéré ». Dans le catalogue de l’exposition sur l’ « art dégénéré » de 1937, on pouvait lire ces lignes : « Tout ce qui apparaît, d’une façon ou d’une autre, comme pathologique, est à éliminer. Une figure de valeur, pleine de santé, même si, racialement, elle n’est pas purement germanique, sert bien mieux notre but que les purs Germains à moitié affamés, hystériques et occultistes de Maître Fidus ou d’autres originaux folcistes ». L’artiste ne recevait plus beaucoup de commandes. Beaucoup de revues du mouvement « Lebensreform » ou du mouvement de jeunesse, pour lesquelles il avait travaillé, cessèrent de paraître. Sa deuxième femme, Elsbeth, fille de l’écrivain Moritz von Egidy, qu’il avait épousée en 1922, entretenait la famille en louant des chambres d’hôte (« site calme à proximité de la forêt, jardin ensoleillé avec fauteuils et bain d’air, Blüthner-Flügel disponibles »). L’ « original folciste » a dû attendre sa 75ème année, en 1943, pour obtenir le titre de professeur honoris causa et pour recevoir une pension chiche, accordée parce qu’on avait finalement eu pitié de lui.

 

Pour les occupants russes, qui eurent à son égard un comportement respectueux, Fidus a peint des projets d’affiche pour la célébration de leur victoire, pour obtenir « du pain et des patates », comme il l’écrit dans ses mémoires en 1947. Le 23 février 1948, Fidus meurt dans sa maison. Ses héritiers ont respecté la teneur de son testament : conserver la maison intacte, « comme un lieu d’édification, source de force ». Jusqu’au décès de sa veuve en 1976, on y a organisé conférences et concerts. La belle-fille de Fidus a continué à entretenir vaille que vaille la maison, en piteux état, jusqu’à sa propre mort en 1988. La RDA avait classé le bâtiment. Les œuvres d’art qui s’y trouvaient avaient souffert de l’humidité et du froid : en 1991, la « Berlinische Galerie » a accepté de les abriter. La maison de Fidus est aujourd’hui vide et bien branlante, une végétation abondante de ronces et de lierres l’enserre, d’où émerge sa façade en pointe, du type « maison de sorcière ». Il n’y a plus qu’un sentier étroit qui mène à une porte verrouillée.

 

Michael MORGENSTERN.

(article paru dans « Junge Freiheit », n°5/1995 ; http://www.jungefreiheit.de/ - « Serie : Persönlichkeiten der Jugendbewegung / Folge 2 : Fidus » - « Série : Personnalités du Mouvement de Jeunesse / 2ième partie : Fidus » ; trad.. franc. : octobre 2010).   

dimanche, 07 novembre 2010

A Forgotten Thinker On Nation-States vs. Empire

A Forgotten Thinker On Nation-States vs. Empire

Paul Gottfried

Ex: http://www.freespeechproject.com/

Carl_Schmitt_-_The_Enemy_bigger_crop.jpgGerman legal theorist Carl Schmitt (1888-1985[!]) has enjoyed a widespread following among European academics and among that part of the European Right that is most resistant to Americanization. In the U.S. it is a different matter. Outside of the editors and readers of Telos magazine, which has heavily featured his work, Schmitt's American groupies are becoming harder and harder to find.

My intellectual biography of this thinker, which Greenwood Press published in 1990, has sold rather badly. An earlier, much denser biography, by Joseph W. Bendersky, put out by Princeton in 1983, obtained a broader market. In the eighties, academically well-connected commentators, including George Schwab, Ellen Kennedy, Gary Ulmen, and Bendersky, built up for Schmitt a scholarly reputation on these shores by trying to relate his thought to then-contemporary political issues. This caused so much concern among American global democrats that The New Republic (August 22, 1988) published a grim tirade by Stephen Holmes against the Schmittian legacy. An echo could be found in the New York Review of Books (May 15, 1997), in a screed by another neoconservative, Mark Lila. Though the Schmitt scholars sent in responses, the New York Review would not publish any of them. Apparently the political conversation in Midtown Manhattan is not broad enough to include non-globalists.

Schmitt is properly criticized for having joined the Nazi Party in May 1933. But he clearly did so for opportunistic reasons. Attempts to draw a straight line between his association with the Party and his writings of the twenties and early thirties, when he was closely associated with the Catholic Center Party, a predecessor of the Christian Democrats, ignore certain inconvenient facts. In 1931 and 1932, Schmitt urged Weimar president Paul von Hindenburg to suppress the Nazi Party and to jail its leaders. He sharply opposed those in the Center Party who thought the Nazis could be tamed if they were forced to form a coalition government. While an authoritarian of the Right, who later had kind words about the caretaker regime of Franco, he never quite made himself into a plausible Nazi. From 1935 on, the SS kept Schmitt under continuing surveillance.

There are two ideas raised in Schmitt's corpus that deserve attention in our elite-decreed multicultural society. In The Concept of the Political (a tract that first appeared in 1927 and was then published in English in 1976 by Rutgers University) Schmitt explains that the friend/enemy distinction is a necessary feature of all political communities. Indeed what defines the "political" as opposed to other human activities is the intensity of feeling toward friends and enemies, or toward one's own and those perceived as hostile outsiders.

This feeling does not cease to exist in the absence of nation-states. Schmitt argued that friend/enemy distinctions had characterized ancient communities and would likely persist in the more and more ideological environment in which nation-states had grown weaker. The European state system, beginning with the end of the Thirty Years War, had in fact provided the immense service of taming the "political."

The subsequent assaults on that system of nation-states, with their specific and limited geopolitical interests, made the Western world a more feverishly political one, a point that Schmitt develops in his postwar magnum opus Nomos der Erde (now being translated for Telos Press by Gary Ulmen). From the French Revolution on, wars were being increasingly fought over moral doctrines - most recently over claims to be representing "human rights." Such a tendency has replicated the mistakes of the Age of Religious Wars. It turned armed force from a means to achieve limited territorial goals, when diplomatic resources fail, to a crusade for universal goodness against a demonized enemy.

A related idea treated by Schmitt is the tendency toward a universal state (a “New World Order”?). Such a tendency seemed closely linked to Anglo-American hegemony, a theme that Schmitt took up in his commentaries during and after the Second World War.

German historians in the early twentieth century had typically drawn comparisons between, on the one side, Germany and Sparta and, on the other, England (and later the U.S.) and Athens - between what they saw as disciplined land powers and mercantile, expansive naval ones. The Anglo-American powers, which relied on naval might, had less of a sense of territorial limits than landed states. Sea-based powers had evolved into empires, from the Athenians onward.

But while Schmitt falls back, at least indirectly, on this already belabored comparison, he also brings up the more telling point: Americans aspire to a world state because they make universal claims for their way of life. They view "liberal democracy" as something they are morally bound to export. They are pushed by ideology, as well as by the nature of their power, toward a universal friend/enemy distinction.

Although in the forties and fifties Schmitt hoped that the devastated nation-state system would be replaced by a new "political pluralism," the creation of spheres of control by regional powers, he also doubted this would work. The post-World War II period brought with it polarization between the Communist bloc and the anti-Communists, led by the U.S. Schmitt clearly feared and detested the Communists. But he also distrusted the American side for personal and analytic reasons. From September 1945 until May 1947, Schmitt had been a prisoner of the American occupational forces in Germany. Though released on the grounds that he played no significant role as a Nazi ideologue, he was traumatized by the experience. Throughout the internment he had been asked to give evidence of his belief in liberal democracy. Unlike the Soviets, in whose zone of occupation he had resided for a while, the Americans seemed to be ideologically driven and not merely vengeful conquerors.

Schmitt came to dread American globalism more deeply than its Soviet form, which he thought to be primitive military despotism allied with Western intellectual faddishness. In the end, he welcomed the "bipolarity" of the Cold War, seeing in Soviet power a means of limiting American "human rights" crusades.

A learned critic of American expansionists, Schmitt did perceive the by-now inescapably ideological character of American politics.

In the post-Cold War era, despite the irritation he arouses among American imperialists, his commentaries seem fresher and more relevant than ever before.    

Paul Gottfried is Professor of Humanities at Elizabethtown College, PA. He is the author of After Liberalism and Carl Schmitt: Politics and Theory.  

mercredi, 03 novembre 2010

Walter Darré: Bio-Ecologia del Campesinado

WALTER DARRÉ: BIO-ECOLOGÍA DEL CAMPESINADO

Ex: http://imperium-revolucion-conservadora.blogspot.com/ 

Sebastian J. Lorenz
La antigua nobleza: sangre y tierra.
Walter Darré, alemán nacido en Argentina, autor de “El campesinado como fuente de vida la raza nórdica” y de “Nueva nobleza de sangre y suelo”, y creador de la doctrina conocida como “sangre y suelo” (Blut und Boden) que propugnaba una nueva nobleza de la raza nórdica ligada a la tierra y a la tradición campesina. Fue Reichsminister de Agricultura, líder del campesinado alemán (Reichsbauernführer) y Obergruppenführer-SS, en cuya calidad ostentó el cargo de director de la Oficina de la Raza y el Reasentamiento (Rasse und Siedlungshauptamt-RusHA). Darré contó con el apoyo de Himmler y de la Ahnenerbe, como se vio en capítulos anteriores, hasta que el propio Führer prescindió de sus servicios y depositó su confianza en los abastecimientos producidos gracias a los “planes cuatrienales” de Göering.
Darré no ocultó nunca un decidido nordicismo: «Es la raza germánica – la raza nórdica según la expresión en boga- quien ha insuflado la sangre y la vida de nuestra nobleza; es esta raza la que ha dictado sus costumbres … Pudiéndose demostrar el origen de esta raza localizada en el noroeste de Europa, se llegó a un acuerdo para dar a esta especie de hombres el nombre utilizado por las ciencias naturales de “raza nórdica, también se habla de “hombre nórdico”. Muchos alemanes auténticos se oponen todavía, en su fuero interno, a que se designe como “nórdico” lo que ellos han considerado toda su vida como germánico por auténticamente alemán … Es imposible hablar de “raza germánica” pues entonces llegaríamos a la falsa conclusión de que las culturas romana, griega, persa, etc, fueron creadas por los germanos. Necesitamos una concepción que exprese esta raza, que fue común a todos estos pueblos». A Darré no le gustaban las denominaciones de “arios” ni de “indogermanos”, por tratarse de designaciones exclusivamente lingüísticas, dándose el hecho de pueblos en los que se ha extinguido la “sangre nórdica” pero que conservan una lengua “indogermánica”. La “idea nórdica”, sin embargo, expresaba la raíz misma de lo alemán y de los pueblos europeos emparentados con él, más allá incluso de lo puramente germánico.
El “ideal de la raza nórdica” sólo podía tener un objetivo posible: «conseguir por todos los medios posibles que la sangre creadora en el cuerpo de nuestro pueblo, es decir, la sangre nórdica sea conservada y multiplicada, pues de eso depende la conservación y el desarrollo del germanismo». En consecuencia, la única conclusión para Darré es que «el hecho de que constatemos hoy un fuerte mestizaje en nuestro pueblo no es razón para continuar por el mismo camino. Es, al contrario, una razón para detener indirectamente el mestizaje designando claramente un resultado a alcanzar como objetivo de selección de nuestro pueblo. Hemos absorbido tanta sangre no-nórdica, que incluso si solamente reserváramos el matrimonio a las muchachas de sangre nórdica, conservaríamos todavía durante milenio en el cuerpo de nuestro pueblo partes de sangre no-nórdica suficientes para aportar el más rico alimento a la diversidad de los temperamentos creadores. Por lo demás, toda parcialidad en el terreno de la selección es compensada siempre por una aportación prudente de la sangre deseada, incluso si es no-nórdica, mientras que la purificación de las partes de sangre extraña en el protoplasma hereditario del pueblo devenido no creador por inconscientes mestizajes es difícil … Para inspirarnos nuevamente de la experiencia de la cría de animales, deduciremos que hay que educar al pueblo alemán para reconozca como objetivo al hombre nórdico y, particularmente, sepa discernir sus rasgos en un mestizo. La selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces; así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera …». Veamos ahora cómo pensaba Darré efectuar la selección de la sangre nórdica a través de la fuente pura y original del campesinado germánico.
La nobleza del campesinado nórdico.
La ruptura entre Himmler y Darré respondió, además, a dos concepciones muy distintas sobre el alma de la raza germánica, que para el primero era, sin duda, la figura del guerrero nórdico conquistador (krieger) y, para el segundo, el campesino nórdico colonizador (bauer), que Hitler sintetizaría en su doctrina racial del espacio vital: soldados para conquistar y campesinos para cultivar. Y a estas dos cosmovisiones tan dispares se había llegado mediante una reinterpretación de la historia de los germanos: Darré rechazaba, por ejemplo, que la institución más característica del medievo germánico, el régimen feudal, fuera de tradición nórdica, porque era propia de unos francos carolingios, romanizados y cristianizados, frente a los cuales se situaban sus enemigos y paganos sajones, que sí representaban los auténticos sentimientos nórdicos de libertad personal y fidelidad a la tierra. La raza nórdica no era pues la del guerrero conquistador o del aventurero nómada, sino una raza de campesinos –armados, desde luego, cuando se presentaba la ocasión para el combate- dirigidos por una nobleza electa extraída de sus mismas fuentes agrarias. La contradicción ideológica interna del marxismo obrero, que triunfó en un país desindustrializado como Rusia, se reproducía inversamente en el nacionalsocialismo de inspiración campesina que se había impuesto en un país urbano e industrial como Alemania.
El romanticismo alemán construyó una imagen idealizada de los antiguos germanos, que basculaba entre el guerrero libre y el agricultor, como una especie de campesino-soldado (wehrbauer), arraigado en la tierra, dispuesto sólo a coger las armas para defender su solar o emprender la búsqueda de otros nuevos que cultivar. Esta tesis se separaba de otras visiones que hacían de los germanos unas tribus nómadas tremendamente belicosas, contraponiendo además la figura del germano pegado a su tierra, libre de contaminación física y espiritual, frente a la tradición urbana de la decadente civilización romana, a la moral parasitaria del judío o al nomadismo depredador de eslavos y mongoles. De esta manera, se producía una comunión mística entre la sangre y la tierra que, en un mundo rural idílico, debía ser el instrumento fundamental de purificación y conservación de la raza nórdica. Aunque el modelo campesino de Darré estaba diseñado para una “renordización interna” de la propia Alemania, tanto Hitler como Himmler pensaban implementarlo en la colonización y consiguiente “nordización” (aufnordung) de los territorios conquistados a los eslavos, como ya había sucedido en otras épocas anteriores gracias al ímpetu aniquilador y colonizador de la orden teutónica.
Evola constataba cómo el campesinado de Europa central había conservado una cierta dignidad que lo volvía diferente del de países meridionales y orientales. Darré veía en el campesino alemán fiel a su tierra la fuente de fuerzas más sana de la sangre, de la raza, del volk, una tradición que fundamentaba en las antiguas civilizaciones indoeuropeas. Ya S.H. Riehl había visto en el campesinado a la única capa social, junto a la nobleza terrateniente (Junkers), los únicos sustratos que no se encontraban desarraigados: sobre estas premisas fue forjándose la consigna según la cual “la tierra libera del dinero”, representándola con el clásico esquema del viejo campesino amante de su tierra pero endeudado con el prestamista enamorado de la usura. Por eso, Darré se ocupó de proponer medidas para evitar el éxodo urbano y el desarraigo del campesino, protegiendo no sólo las tierras contra la especulación, sino también contra el endeudamiento, mediante la institución llamada Hegehof: una propiedad hereditaria inalienable (Erbhof), transmisible al heredero más cualificado en el trabajo de la tierra, y que se conservaría a través de las generaciones por “la herencia del linaje en las manos de campesinos libres”.
Sangre y suelo, raza y tierra, son pues las dos coordenadas nucleares de la ideología campesina de Darré. La raza nórdica podía conservar su primacía sobre las demás por razón de la pureza de su sangre, debiendo para ello retornar a los principios sobre la tierra, el matrimonio y la familia que habían regido las antiguas tribus germánicas. «Para el germano, el suelo y la tierra son un miembro constitutivo más de la unidad del grupo familiar». El asentamiento en las tierras de los antepasados y las uniones entre individuos arraigados en las mismas garantizaba la integridad biológica, previniendo además la contaminación de sangre foránea procedente de otras razas, por cuanto éstas no se encuentran unidas por la herencia al solar patrio. La familia nórdica, cuya existencia estaría garantizada por una unidad agrícola suficiente, sería capaz de producir niños racialmente puros, garantizando el futuro de la raza. El ideal agrario de Darré identificaba al campesino con el noble, afirmando que en el origen de los pueblos germánicos no había distinción entre uno y otro, puesto que la “nobleza de la sangre” había sido aquélla que podía demostrar su más antiguo arraigo a las tierras nórdicas, pero el cristianismo, el igualitarismo afrancesado y el marxismo corrompieron el viejo ideal alemán de nobleza y mutaron las ancestrales leyes de la herencia promoviendo el reparto indiscriminado de la tierra y fomentando las uniones entre individuos de distintos linajes raciales.
La selección del campesinado nórdico.
Para Darré la verdadera noción de nobleza, en sentido germánico, debe caracterizarse por una selección de sus dirigentes sobre la base de “núcleos hereditarios seleccionados”. Darré advertirá que «si queremos organizar la nueva nobleza alemana de acuerdo con la concepción germánica, debemos procurar que nuestra actual nobleza no-germánica desde la Edad Media vuelva a los principios de la nobleza de los antiguos germanos, basada en los valores intrínsecos. Hay que proporcionarle los medios para conservar por herencia la sangre que ha demostrado su valía, para eliminar la sangre de calidad inferior y permitirle apropiarse, en caso de necesidad, de los nuevos caracteres de valor que surjan del pueblo». Para conservar esta unidad sanguínea «hay que fundamentarla en una materialidad nutricia: así, la propiedad del suelo es fundamento obligatorio de la familia germánica», porque el progreso de la civilización se perpetúa cuando los mejores se hacen cargo del cuidado de la tierra. En definitiva, «la tierra, para el pueblo alemán, es tanto una base sana para el mantenimiento y la renovación de su sangre, como un medio para alimentarse».
Para Günther, que se adhirió a la “tesis campesina” de Darré, «la nobleza germánica, al igual que toda nobleza indogermánica, ha tenido originariamente una base biológica, y la igualdad del linaje ha significado, alguna vez en los tiempos primigenios de estos pueblos, tanto como idéntico nivel de capacidad hereditaria e igual preeminencia de las características de la raza nórdica». De esta forma, un Estado de cuño germánico dependería de la existencia de una “nobleza de nacimiento”, de una capa dirigente de familias de “alto valor hereditario” que –según Günther- sólo puede lograrse recuperando los valores biológicos y anímicos de los antepasados de raza nórdica y garantizando su transmisión y perpetuación en las generaciones venideras.
Sin embargo, Darré considera que no podía crearse una nobleza de sangre, una aristocracia racial, sino por aplicación de la idea de selección a la reproducción humana, mediante la utilización de los conocimientos sobre la herencia, llegando a afirmar que la palabra “raza” (rasse) no debía aplicarse a los alemanes, debiendo usar el concepto de “especie” (art) –Darré hacía descender a los nórdicos de una especie divina-, si bien reconoce que “raza” había pasado a convertirse en una unidad de apreciación del hombre desde el punto de vista étnico. «Es solamente con todos los medios posibles que podrá conseguirse que la sangre creativa en el cuerpo de la nación, la sangre de los hombres de raza nórdica, sea mantenida e incrementada». Pero la cuestión no era, para Darré, aumentar indiscriminadamente el número de niños alemanes, sino de garantizar la pureza biológica de sus progenitores. Y por ello, la mujer se convertía en el centro de la supervivencia de la familia, debiendo ser consciente de que su misión consistía en la conservación, fomento y multiplicación de individuos raciales sanos, si bien con el apoyo material y espiritual del Estado y de la propia comunidad popular.
Por su parte, el hombre nórdico debía ser aleccionado sobre la forma de elegir a las mujeres para procrear, no sólo desde un punto de vista sexual, sino predominantemente racial: se crearían para ello oficinas de selección de las mujeres óptimas para tener hijos, separando a las que debían ser esterilizadas, y procurando, al mismo tiempo, que cada hombre pudiera tener descendencia con varias mujeres sin sufrir ningún reproche moral, pues la inmoralidad estaba en las relaciones con hembras de otras razas. «Desde el punto de vista de la selección –escribía Darré- nuestro pueblo debe primero clasificar a sus hombres según sus capacidades, pero debe exigirles escoger como esposas, dentro de lo posible, según su coeficiente de selección nórdica». Darré rechazaba el “espiritualismo racial” de Clauss o el posicionamiento de Günther relativo a una definición de lo nórdico más allá de lo puramente antropológico, pues consideraba que en la elección de una mujer no debe subestimarse la importancia racial de las cualidades corporales: «la selección por el físico exterior tiene la ventaja de limitar los cruces y así se aleja de nuestro pueblo la sangre verdaderamente extranjera, cuyo efecto resulta incalculable sobre la herencia sanguínea de la descendencia y del pueblo».
Para ello, Darré proponía una selección biológica de las ciudadanas alemanas aptas para fecundar: la primera clase comprendería a las mujeres cuyo matrimonio era deseable para la comunidad desde todos los puntos de vista, raciales y morales; la segunda clase incluía al resto de mujeres sin objeciones desde un punto de vista racial, con independencia de valoraciones morales; la tercera clase englobaría a aquellas mujeres irreprochables moralmente pero con taras hereditarias, a las que sólo podría permitirse el matrimonio en caso de previa esterilización; y la última comprendería a aquellas mujeres cuyo matrimonio debía impedirse tanto por motivos físicos como éticos, por no adecuarse a la naturaleza biopsíquica de la raza nórdica. En definitiva, la ecología genética de Darré pretendía cultivar alemanes campesinos desde la biología, pero no desde la sociología de las costumbres y de las tradiciones.

mercredi, 27 octobre 2010

Ortega y Gasset: Europa y la revolucion conservadora

ORTEGA Y GASSET: EUROPA Y LA REVOLUCIÓN CONSERVADORA


Sebastian J. Lorenz
No es muy conocida la relación que tuvo Ortega y Gasset con el pensamiento y los autores de la «Revolución Conservadora» alemana, especialmente con Martin Heidegger, aunque más constatada está su atracción –desde muy joven- por la ciencia y la cultura alemanas, país en el que durante su estancia universitaria le permitió vislumbrar la necesidad de una reconstitución de la historia de España. No debemos olvidar que Ortega formaba parte de la generación europea de 1914, en sus palabras, de una “generación de combate”, cuyo bautismo de fuego acentuó “el deseo de crear nuevos valores y de reemplazar aquellos que estaban desvaneciéndose”, un sentimiento común y generalizado de los jóvenes europeos que había hecho suyo el lema nietzscheano de la “transvaloración de los valores”: además de Heidegger, Spengler (al que prologó la edición castellana de su principal obra), Sombart, Mann, Schmitt, Jünger, Klages y Ziegler, entre otros, que posteriormente se darán cita en la “Revista de Occidente” en su particular cruzada contra las instituciones demoliberales que habían desatado aquella “hiperdemocracia” tan ajena a sus sentimientos elitistas.
Tras la “catástrofe” producida en una Europa desmoralizada y deshumanizada por el desencadenamiento de las “tempestades de acero” y el abatimiento que provoca la observación de un “mundo en ruinas”, Ortega, que continúa siendo un revolucionario-conservador, volverá a Alemania creyendo en la “unidad de la supranación europea” y allí pronunciará sus conferencias tituladas “Meditación de Europa” y “¿Hay una conciencia de la cultura europea?”, cuyo interés ha quedado oscurecido por la trascendencia de otras como “España invertebrada” o “La rebelión de las masas”.
“España es el problema, Europa la solución”, afirmaba tajantemente Ortega y Gasset. La idea de Europa en el pensamiento político de Ortega, sin embargo, no encajaba demasiado en los rígidos corsés del conservadurismo revolucionario germano-centrípeto, aunque tampoco –como se ha especulado- con el frágil paneuropeísmo del conde Coudenhove-Kalergi, pues el pensador español tenía una “íntima concepción” de Europa, algo así como “una interpretación española de la posibilidad europea” que arrancaba del binomio regeneración-europeización puesto ya de manifiesto por Joaquín Costa.
Precisamente, la idea orteguiana de “nación”, que parte de la definición de Toynbee como una combinación de “tribalismo y democracia”, tiene el significado de “unidad de convivencia” referido a los pueblos europeos o colectividad constituida por un repertorio común de tradiciones que la historia ha creado en función de grupos étnicamente próximos. Europa es una nación “in statu nascendi” que se identifica con una “forma de ser hombre” en el sentido más elevado y que aspira precisamente a “la manera más perfecta de ser hombre”, por eso cada tipo europeo –el ser francés, el ser español- representa “una forma peculiar de interpretar la unitaria cultura europea”, incitándose mutuamente hacia la perfección. Ortega concibe la “Nación-Europa”, ante todo, como “programa” de vida hacia el futuro, porque las “pequeñas naciones históricas constituidas” se han quedado sin porvenir y la única solución es la supranacionalidad hacia una integración europea: si en la formación trágico-heroica de Europa fue decisiva, en momentos cruciales, la confluencia de elementos de carácter geográfico, biológico o filológico, ahora a Ortega reflexiona sobre lo que a él le parece un peligroso reduccionismo étnico, pues se hace necesaria la superación de las fronteras nacionales y la búsqueda de una “nueva forma” de estructura jurídico-política que proporcione el molde adecuado a la voluntad política de unión europea.
Al fin y al cabo, Ortega reconoce que “una cierta forma de Estado europeo ha existido siempre”, al poseer Europa un “poder público europeo” y una “opinión pública europea” , esto es, una auténtica “sociedad europea” –unas vigencias sociales comunitarias- que han dejado sentir su presión vital sobre todos los pueblos del orbe. En definitiva, su teoría de que el hombre europeo ha vivido siempre –y simultáneamente- en “dos espacios históricos”: uno, menos tupido pero más extenso, Europa, y otro, más espeso pero más reducido, la etnia o nación.
Entonces existen un poder, una opinión, una tradición, un equilibrio, una sociedad europeas. Pero, ¿hay una conciencia cultural europea? Porque Europa como cultura no es lo mismo que Europa como estado. Según Ortega el “nationalisme rentré” que ha arrastrado secularmente a los pueblos europeos a combatirse entre sí y, al mismo tiempo, a admirarse en una paradójica hermandad conflictiva, bastaría para deprimir la idea de una conciencia cultural europea: el exaltado y vital particularismo de los pueblos europeos explicaría, en cierta medida, la ausencia de un gran poder de atracción respecto a la cultura común que incitase a las pequeñas naciones a salir de sí mismas. Y es que la cultura europea es “creación perpetua”, no es un punto muerto, sino “un camino que obliga siempre a marchar hacia adelante”. Depende, pues, del reconocimiento colectivo de una cultura común, de la recuperación de esa “memoria europea”, que la unión futura dote de forma institucional a una realidad preexistente.
La división de las naciones europeas, con sus disputas y rencillas domésticas (léase “guerras civiles”), ha provocado que “Europa ya no mande en el mundo”, después de varios siglos en los que los pueblos europeos, como grupo homogéneo, habían ejercido –e impuesto- un estilo de vida unitario sobre la mayor parte del globo (período llamado de la “hegemonía europea”), hecho insólito que, necesariamente, implica –según Ortega- un “desplazamiento de poder”. Sin embargo, el relevo es complejo. ¿Quién llenará con legítima autoridad ese “horror vacui” dejado por Europa en su capacidad de mando civilizadora, su “imperium espiritual”? Se trata, en definitiva, de un cambio de gravitación histórica (que también es cíclica, como el tema spengleriano de la decadencia), porque sin el ejercicio de ese “poder espiritual”, la humanidad representaría “la nada histórica”, el caos, al desaparecer de la vida los principios de jerarquía y organicidad. Para Ortega, el “imperium espiritual” de Europa emana de un cuerpo orgánico en equilibrio sobre un mundo ramificado y desordenado, para darle forma, estilo, unidad y destino.
Ciertamente, los mandamientos europeos, sin ser los mejores posibles, pero sí los únicos mientras no existan otros, han perdido su vigencia, pero nadie es capaz de sustituirlos por un nuevo “programa de organización del mundo”. Ortega no cree que los Estados Unidos de América o la Federación Rusa (pueblos nuevos camuflados históricamente) sean las alternativas, puesto que constituyen “colonias culturales o parcelas del mandamiento europeo”, pueblos-masa que, sin embargo, “se encuentran resueltos a rebelarse contra los grandes pueblos creadores, minorías de estirpes humanas que han organizado la historia”. Sólo una Europa unida será capaz de encontrar nuevos principios, nuevas vigencias colectivas, nuevas instancias bajo las que articular la convivencia de los pueblos.
Pero Ortega no se limita a un análisis de Europa puramente político y filosófico. Su carácter interdisciplinar le anima también a elaborar diversas disertaciones biohistóricas sobre “la formación vertical de la Europa de los tres elementos”. Así que tres elementos son comunes en la constitución de los pueblos europeos: el autóctono originario, el sedimento civilizador romano y las inmigraciones germánicas. Ortega se opuso a la división de Menéndez Pelayo entre las “nieblas germánicas” y la “claridad latina”, puesto que concebía este binomio como dimensiones inseparables de una “cultura europea integral”, de ahí su teoría sobre la complementariedad entre lo germánico y lo latino, advirtiendo, no obstante, que ni Europa, ni Áfica, ni América existían cuando la cultura mediterránea era una realidad. Puntualizando esta idea de complementariedad, Ortega traza una hipótesis fundamentada en los dos polos del hombre europeo: el pathos materialista del sur y el pathos trascendente del norte, como partes de un todo, de la “patética continental” europea.
“Europa es ciencia, España es inconsciencia” es otra frase orteguiana para el recuerdo. Europa es la inventora de la técnica científica, de la conjunción invención-industrialismo, mientras que los “pueblos jóvenes” no la “crean”, sino que la “implantan”. Pero Ortega rechaza la idea de Spengler según la cual “la técnica puede seguir viviendo cuando han muerto los principios de la cultura”. La técnica no puede vivir si su base cultural (científica). La tesis orteguiana es la siguiente: el hombre europeo es un ser técnico que pretende recrearse un mundo nuevo; la técnica es, esencialmente, creación y, a través de ella, el europeo pretende transformar una “naturaleza” en la que se siente incómodo, porque el hombre europeo no tiene naturaleza, en su lugar tiene cultura, tiene historia, tiene técnica, tiene ciencia. En definitiva, los pueblos europeos han quebrado la “invariabilidad de la naturaleza”, pero sin pertenecer a ella, sino al contrario, situándose, mediante un extrañamiento, frente a ella, destruyendo la regulación natural del “ser”. Por eso dirá que “Europa es igual a ciencia más técnica”. Y adelantará acontecimientos: la técnica europea acabará convirtiéndose en una especie de “sobrenaturaleza” humana, transformándose en “patrimonio de todos los pueblos del mundo”.
En fin, Ortega encontró en la idea de Europa la respuesta al problema de España. El objetivo debía ser la integración en la cultura europea, la conquista de un “mínimo nivel histórico” dentro de la evolución cultural europea. Pero frente a las tesis europeístas que proclamaban la fusión de España con Europa o frente a las tendencias casticistas que defendían el aislamiento y la individualización del ser español, Ortega prefería adoptar el “método cultural y científico de Europa para incorporarlo a nuestro nivel y peculiaridad”. Al mismo tiempo, el carácter distintivo de Europa, esto es, la identidad que se refleja en la existencia de un sentimiento europeo habría de ser, precisamente, su definitivo impulso hacia una empresa unificadora: identidad nacional y cultural entre la diversidad y la pluralidad. Eso es Europa.
[Publicado en ELManifiesto.com] 

mardi, 26 octobre 2010

Ernst Jünger: "Sicilian Letter to the Man in the Moon"

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Ernst Jünger’s “Sicilian Letter to the Man in the Moon”

Ernst Jünger

Ex: http://www.counter-currents.com/

Translated by Andreas Faust

1.

Greetings you magician and friend of magicians! Friend of solitaries. Friend of heroes. Friend of lovers. Friend of the good and the bad. Knower of nighttime secrets. Tell me: where there is a knower — is there not already something more than can be known?

I still remember the hour when your face appeared in the window, large and terrible. Your light fell into the room like that ghostly sword which freezes all motion when drawn. Rising over the wide realms of stone, you see us slumbering close together with pale faces, like the countless white pupae which rest in the corners and corridors of ant cities, while the night wind roams through vast fir forests. Do we not appear to you like creatures of the deep — submerged in abysses of the sea?

My small room, too, appeared submerged — the room where I had sat up in bed, immersed in a solitude too deep to be broken by men. Things stood silent and motionless, in a strange light, like the sea creatures one glimpses beneath a curtain of algae on the ocean floor. Did they not appear mysteriously changed — and is change not the mask behind which the secret of life and death conceals itself? We all know these moments of uncertain expectation when one feels the voice of the unknown near, and listens for it to resound, and when the hidden conceals itself only with difficulty in every form. A crackling in the woodwork, the vibration of a glass, over which an invisible hand seems to brush — just as space itself is charged around the exertions of a being who hungers for sense, and who can catch its signals!

Language has taught us to hold Things in contempt. Grand words are like a grid stretched across a map. But isn’t a single fistful of earth greater than an entire cartographic world? Once, the whispering of nameless forms still had an urgency. There are signs scrawled on broken down fences and crossroad posts, which the burghers carelessly ignore as they pass. But the tramp notices — indeed, he knows a great deal about them. To him they are a cipher in which the essence of an entire district is revealed — its dangers and securities.

The child, too, is such a tramp, who only recently wandered through the dark gate which separates us from our timeless homeland. The child still understands the language of the runes of Things, which tell of a profound brotherhood of essences.

2.

I feared you in those days, as a being of malignant, magnetic power, and believed one could never stare directly into your full, gleaming radiance without being robbed of gravity, and sucked irresistibly into empty space. Sometimes I dreamt I let my caution slip, and saw myself in a long, white shirt, devoid of will, like a cork on a sinister flood tide, driven high above a landscape in whose depths lurked nightshade forests, and where the roofs of villages, castles, and churches glimmered like black silver — the sign language of a threatening geometry, directly apprehensible to the soul.

On such dream journeys my body was completely rigid. The toes were curled, fists closed, and the head bent back. I felt no fear — just a feeling of inescapable loneliness in a deserted world, governed mysteriously by silent powers.

3.

How this image later changed under the influence of the northern lights, whose first penetration of the fiery and proud heart was like a raging fever. There comes a time when one feels ashamed of one’s frenzied ecstasies, and another time when one again accepts them. Nor would one wish to have gone without the ecstasy of reason in its utmost excess, because in every triumph of life containing an absolute — in every enlightenment deeper than enlightenment — there too hides a spark of the eternal light and a shadow of the eternal darkness.

Dark assault on the infinite! Should a courageous heart be ashamed to be party to it? Military solitude of the siege tunnels, as seconds and millimetres pass; powerful front lines of the trenches in no man’s land, equipped with the strict mathematics of ramparts and sentry posts, with sparkling machines and fantastic instruments!

The idea willingly remains at that border where number dissolves into symbol, willingly revolves around both symbolic poles of the infinite, atom and star, and loves nothing more than taking booty on the battlefield of endless possibility. Was there any sorcerer’s apprentice who didn’t stand once behind the artificial predatory eye of the telescope, moved by the operation of silent clocks in cosmic trajectories, which never once belonged to the bustling crowd of psychologists?

Here danger looms, and he who loves danger loves to answer for it. He wants to be attacked with greater ferocity, so he can answer more ferociously in return. Light is more obscure by day than by night. He who has tasted doubt is certain to go beyond the frontiers of lucidity in search of the miraculous. He who doubted once must doubt still more, if he wishes to avoid despair. Whether one was capable of seeing a number or sign in the infinite — this question is the last and only measure to which a mind of this type will reply. But for each the position is another that he must win to be capable of deciding. Happy is that simplicity which knows not these forked paths — yet a wild and manly joy blooms on the edges of precipices.

In any case, was it not surprising to learn that behind the man in the moon, a light- and shadow-play was concealed, of plains, mountains, dried-up seas and extinct volcanoes? Here the strange suspicion of Svidrigajlov entered my mind — the suspicion that eternity is only a bare, whitewashed chamber, whose corners are inhabited by black spiders. One may enter . . . and that is all there is to eternity.

Yes, and why not? What is the air to one who breathes it? What does he care for the beyond when it gives him nothing that is not beyond as well?

A new topography is required.

4.

The drill thinks in a different way to the pincers, which grip one point after another. Its thread cuts broadly through several layers in the material, but through all the many points it touches in spiral motion, it is the tip which gives direction and energy to the thrust.* This relationship between chance and necessity, which do not exclude each other, but are mutually dependent, is also inherent in the words and images of a language, which claim to be the sole and final possibilities of understanding. Every word turns on an axis, which itself is incapable of containing words. The language I dream of must be comprehensible, or completely incomprehensible, until its last letters, as the expression of a great isolation which alone makes possible the highest love. There are crystals which are transparent solely in one direction.

But are not you yourself a master who knows how to put his riddle elaborately, that riddle of which only the text, not the solution, is communicable – just as the hunter sets his snares with great care but must then wait for a beast to stumble into them?

The solution itself is not important – only that the riddle is seen.

* “The motion of the screw, crooked and straight, is one and the same.” – Heraclitus

5.

You know how life is at the edges of dark forests: the gardens, lighted islands in the glow of lanterns, encircled by a magical whirling of music. You know the couples who lose each other silently in the darkness; your light meets their faces like pale masks, while lust accelerates their breathing and fear stifles it. You know the intoxicated ones who break out of the thicket.

You rose large over the thatched houses along the river, on that June night when one of your apprentices entered into closer brotherhood with you. The festive table was placed on the trampled threshing floor, and the weapons and red caps gleamed in the tobacco smoke on walls lined with fir twigs. Where now is the youth who so soon afterwards broke the secret seal of death, whose tidings were already prepared for him? He was there once, and is there evermore. How the first ecstasy pulls the heart like sails! Did you not love him as he sank for the first time in the depths, where elemental spirits mightily exalted power? Are there not hours when one is beloved by everything, like a flower who blossoms in wild innocence? Hours when from sheer excess we are shot like a projectile along the paths of habit? Only then do we begin to fly, and only in uncertainty is there a high objective.

I follow him with my eyes as if it had been today, for some experiences have a validity which eludes all laws of time. When wine’s fire melts away the growth rings which have yearly encircled this strange and wondrous heart, we discover in our depths that we have remained the same. O memory, key to the innermost forms contained in people and experiences! I am certain that you yourself are contained in the dark, bitter, intoxicating wine of death as the last and decisive triumph of Being over Existence. I greet you above all, you solitary revellers who keep your own company at table, and time and time again raise a glass to yourselves! What are we, other than mirror images of ourselves? And where we sit with ourselves in pairs, then the third one, God, is never far.

I see your protégé as he appears from a raging cloud of noise, before the low doors, over which the thin white horse’s skull gleams in the night light. The warm air, laden with the pollen of grasses like narcotic gunpowder, creates a wild eruption which drives him crying blindly into the silent landscape. He ran along the crest of the high wall bordering the meadows, and fell, oddly enough without pain, down into the thick grass. Further along the course turns to the feeling of a power, which seems to be nourished by unlimited resources. The large white umbrels gliding by like alien signals, the scent of a hot, fermenting earth, the bitter haze of the wild carrots and spotted hemlocks — all these like the pages of a book which opens of its own accord, in which eternally deep, miraculous relationships are described. No more thoughts whose properties melt darkly into each other. The nameless life will be greeted exultantly.

He penetrates the wide belt of reeds in the stream’s midst. Gases bubble up from the mud. The water embraces the glowing breast as if it had arms, and the face glides away along the dark mirror of the river. In the distance a weir thunders, and the ear, which has come near to the primeval language, feels dangerously enticed. The stars glimmer upwards from bottomless depths, and when the water swirls and eddies they begin to dance.

On the other bank the forest opens up; its thickets trap life, threateningly and in tangled lines. The roots spread their intertwining patterns of threads and tendrils, and the branches weave themselves into a net, in whose seams a swarm of faces move and change. Over the tops of the trees lattices of blind generative power intersect, their forms giving birth to both enmity and destruction, and the foot throws up the soft mist of decay where life dully mingles with death.

Then the clearing breaks open, and your light falls into the darkness like an excommunication of law. The trunks of the beech trees gleam like silver, the oaks like the dark bronze of ancient swords. Their crowns emerge in a powerful structure. The smallest twigs and the last blackberry stalks are touched by your light, unlocked and interpreted, and at the same time surrounded – struck by a great moment which makes everything significant and which chance surprises on its secret paths. They are part of an equation whose unknown symbols are written with glowing ink.

How the simple lines of the homeland are hidden even in the most intricate landscape! Happy allegory, in which a deeper allegory is embedded.

6.

What sustains us, if not the mysterious ray of light which sometimes flashes through the inner wilderness? People wish to speak, however imperfectly, of that which to them is more than human.

The attempts of science to contact distant stars are an important characteristic of this age. Not only the endeavour itself, but also its technical methods provoke a strange mixture of soberness and imagination. Is it not an astonishing proposal to draw with navigational lights the right-handed triangle of Pythagoras and its three quadrats over an expanse of the Sahara Desert? What does it matter to us whether a mathematician exists somewhere in the universe! But here is a living feature that calls to mind the language of the pyramids, an echo of the sacred origin of art, of the solemn knowledge of creation in its hidden meaning — with all conditions of abstract thought brought into harmony, and the devices of modern technology disguised.

Will the radio signals we hurl into the bottomless depths of icy space ever be received, this transformation of languages (whose boundaries lay in earthly mountains and rivers) into an electrical pulse which announces itself all the way to the borders of the infinite? Into which language will this translation be translated?

Wondrous Tibetans, whose monotonous prayers ring out from the cliff-top monasteries of the observatories! Would anyone wish to laugh at prayer wheels who was familiar with our landscapes, with their myriad of revolving wheels — those fierce agitations which move the hour hand of the clock and the furious crankshafts of aeroplanes? Sweet and dangerous opium of velocity!

But is it not true that in the innermost centre of the wheel stillness lies hidden? Stillness is the proto-language of velocity. Through translations one would like to see the velocity increase — all these increases can only be a translation of the proto-language. But how is man supposed to understand his own language?

See, you glance down over our cities. You saw many other kind of cities before them, and will see many others yet. Every individual house is well furnished and built for its own special purpose. There are narrow, winding streets established seemingly by chance in the course of time, just as the the fields of a farming area are divided according to long-forgotten inheritances. Other streets are straight and wide, their alignments determined by princes and master builders. The fossilizations of eras and races fit into each other in many different ways. The geology of the human soul is a special science. Between the churches and government buildings, villas and tenement houses, bazaars and entertainment palaces, train stations and industrial zones, life spreads out its cycles; the circulation is significant, solitude exceptional.

From so great a height, however, this vast store of organic and mechanical powers takes on another picture. Even an eye which observes it through the most powerful telescope could not fail to notice the difference. Indeed, the things do not actually change for that which stands over them, but rather present a different side. It is no longer the case that churches and castles are a thousand years old and warehouses and factories the products of yesterday; for something emerges that one could call their pattern — the common crystalline structure, in which the raw material has condensed. Even the vast diversity of goals and movements which they give rise to, the eye no longer takes as true. Down there are two people, who hurry past each other, two worlds in themselves, and one part of the city can be further from another than the north pole is from the south. But from yourself outwards, you who are a cosmic being and yet still a part of the earth, everything is perceived in its stillness, just like the separation whereby this life has taken form out of volcanic ferment and volatile liquids. O marvellous drama, time after time, as form upon form arises through the difference and hostility of eras and regions! This is what I call the deeper fraternity of life, in which every enmity is included.

For us down here, however, it is rarely permitted to see the aim fused with the meaning. And perhaps our highest endeavour is that stereoscopic glance which comprehends things in their more hidden, more dormant physicality. The necessary is a special dimension. We live in it, and as yet are only capable of beholding its projections in significant beings. There are signs, allegories and keys of many kinds — we are like the blind man who, while he can’t see anything, still feels the light in its vaguer quality — as warmth.

Is it not also the case that the blind man’s every movement takes place in what for a seeing eye is the light, although he himself is shrouded in eternal darkness? We never saw our face in more timeless mirrors. But so, too, do we speak a language whose significance is incomprehensible to us ourselves — a language of which every syllable is both transitory and immortal. Symbols are signs, which nevertheless give us consciousness of our values. They are first of all projections of forms from a hidden dimension, then, too, searchlights through which we hurl our signals into the unknown in a language pleasing to the gods. And these mysterious conversations, this chain of miraculous efforts from which the core of our history exists, which is a history of the battles of men and gods – - – : they are the only things which make learning worthwhile for humanity.

7.

True comparison, that is, the contemplation of things according to their location in necessary space, is the most marvellous method of the protective art. Its base is the mutual expression of the essential, and its peak the essential itself.

This is a kind of higher trigonometry, which deals with the mass of invisible fixed stars.

8.

I climbed on this radiant morning in the ravines of Monte Gallo. The red-brown earth of the gardens was still moist with dew, and under the lemon trees stood the red and yellow blossoms of the Sarazenenfrühlings like the pattern of an oriental rug. There, where the last leaves of the opuntias peered naked and curious over the reddish wall, were mountain pastures, towered over by cliffs and overblazed by yellow perennial spurges. Then the path led through a narrow valley carved from barren rock.

I do not know, and will not attempt to describe, how in the middle of these walls the insight emerged to me that a valley like this grasps the wayfarer more urgently with its stony language, as if a pure landscape were possible, or, put differently, a landscape like this one had deeper powers at its disposal. It probably never had awareness of rank, which would have been unclear to it, and in fact such moments are rare, when one recognises an ensouled life prevailing in nature from a physical expression of this life standing directly opposite. Yes, I believe it has again become possible in recent times. But it was just such a moment that surprised me in this hour — I felt the eyes of this valley resting on me with complete affection. Put differently: it was beyond doubt that this valley had its demon.

Straight away and still in the frenzy of discovery my gaze fell on your already very pale disc, which hovered close over the crest and could probably only be seen looking up from such depths. There rose again, in a strange flashing birth, the image of the man in the moon. Certainly, the lunar landscape with its rocks and valleys is a surface formulated by astronomical topography. But it is just as certain that, at the same time, it is available to that magical trigonometry of which we have spoken — that at the same time it is a region of spirits, and that the fantasy which gave it a face understood the primordial language of runes and the speech of demons with the depths of the childlike gaze.

But the incredible thing for me in this moment was to see both these masks, of one and the same Being, melt inseparably into each other. Because here for the first time an agonising conflict resolved itself, which I, great-grandson of an idealistic, grandson of a romantic, and son of a materialistic race, had hitherto regarded as irreconcilable. It didn’t exactly happen that an Either-Or metamorphosed into an As-Well-As. No, the real is just as fantastical as the fantastical is real.

That was the wonderful thing which delighted us about the doubled images we observed through the stereoscope as children: In the same moment in which they melted together into a single picture, the new dimension of depth burst out from them.

Yes, that is how it is; the age has brought home to us the old magical spells which were always present, if long forgotten. We feel that sense begins to weave itself in, hesitantly still, to the great work which we all create, which holds us in its spell.

La psico-antropologia de L. F. Clauss

LA PSICO-ANTROPOLOGÍA DE L.F. CLAUSS:

UNA ALTERNATIVA FRUSTRADA
Sebastian J. Lorenz
 
Frente al concepto materialista de la antropología nórdica, que consideraba la raza como un conjunto de factores físicos y psíquicos, se fue haciendo paso una antropologíade tipo espiritual, que tendrá su máximo exponente en el fundador de la “psico-raciología” (Rassenseelenkunde) Ludwig Ferdinand Clauss. Frente a la preeminencia de los rasgos fisiológicos, a los que se ligaba unas características intelectuales, Clauss inaugurará la “ley del estilo” . Para él, la adscripción a una etnia es, fundamentalmente, un estilo que se manifiesta en una multiplicidad de caracteres, ya sean de tipo físico, psíquico o anímico que, conjuntamente, expresan un determinado estilo dinámico: «por el movimiento del cuerpo, su expresión, su respuesta a los estímulos exteriores de toda clase, el proceso anímico que ha conducido a este movimiento se convierte en una expresión del espacio, el cuerpo se convierte en campo de expresión del alma» (Rasse und Seele).
Robert Steuckers ha escrito que «la originalidad de su método de investigación raciológica consistió en la renuncia a los zoologismos de las teorías raciales convencionales, nacidas de la herencia del darwinismo, en las que al hombre se le considera un simple animal más evolucionado que el resto». Desde esta perspectiva, Clauss consideraba en un nivel superior las dimensiones psíquica y espiritual frente a las características somáticas o biológicas.
Así, la raciología natural y materialista se fijaba exclusivamente en los caracteres externos –forma del cráneo, pigmentación de la piel, color de ojos y cabello, etc-, sin reparar que lo que da forma a dichos rasgos es el estilo del individuo. «Una raza no es un montón de propiedades o rasgos, sino un estilo de vida que abarca la totalidad de una forma viviente», por lo que Clauss define la raza «como un conjunto de propiedades internas, estilo típico y genio, que configuran a cada individuo y que se manifiestan en cada uno y en todos los que forman la población étnica». Para él, la forma del cuerpo y los rasgos físicos no son sino la expresión material de una realidad interna: tanto el espíritu (Geist) como el sentido psíquico (Seele) son los factores esenciales que modelan las formas corpóreas exteriores. Así, en lo relativo a la raza nórdica, no es que al tipo alto, fuerte, dolicocéfalo, rubio y de ojos azules, le correspondan una serie de caracteres morales e intelectuales, sino que es a un determinado estilo, el del “hombre de acción”, el hombre creativo (Leistungsmensch), al que se deben aquellos rasgos físicos, conjunto que parece predestinar a un grupo determinado de hombres. La etnia aparece concebida, de esta forma, como una unidad físico-anímica hereditaria, en la que el cuerpo es la “expresión del alma”. Klages dirá que «el alma es el sentido del cuerpo y el cuerpo es la manifestación del alma».
La escuela “espiritualista” fundada por Clauss tuvo, ciertamente, una buena acogida por parte de sus lectores, que se vieron liberados de las descripciones antropológicas del tipo ideal de hombre nórdico, las cuales no concurrían en buena parte de la población alemana, reconduciendo, de esta forma, el estilo de la raza a criterios idealistas menos discriminatorios. Pero lo que, en el fondo, estaba proponiendo Clauss, no era una huida del racismo materialista sino, precisamente, un reforzamiento de éste a través de su paralelismo anímico, según la fórmula “a una raza noble, le corresponde un espíritu noble”. Distintos caminos para llegar al mismo sitio. Así, podrá decir que «las razas no se diferencian tanto por los rasgos o facultades que poseen, sino por el estilo con que éstas se presentan», esto es, que no se distinguen por sus cualidades, sino por el estilo innato a las mismas. Entonces, basta conceder un “estilo arquitectónico” a la mujer nórdica, a la que atribuye un orden metódico tanto corporal como espiritual, frente a la mujer africana que carece de los mismos, para llegar a las mismas conclusiones que los teóricos del racismo bio-antropológico.
Por todo ello, las ideas de Clauss no dejan de encuadrarse en el “nordicismo” más radical de la época. El hombre nórdico es un tipo cuya actuación siempre está dirigida por el esfuerzo y por el rendimiento, por el deseo y por la consecución de una obra. «En todas las manifestaciones de actividad del hombre nórdico hay un objetivo: está dirigido desde el interior hacia el exterior, escogiendo algún motivo y emprendiéndolo, porque es muy activo. La vida le ordena luchar en primera línea y a cualquier precio, aun el de perecer. Las manifestaciones de esta clase son, pues una forma de heroísmo, aunque distinto del “heroísmo bélico”». De ahí a afirmar que los pueblos de sangre nórdica se han distinguido siempre de los demás por su audacia, sus conquistas y descubrimientos, por una fuerza de empuje que les impide acomodarse, y que han marcado a toda la humanidad con el estilo de su raza, sólo había un paso que Clauss estaba dispuesto a dar.
El estilo de las otras razas, sin embargo, no sale tan bien parado. Del hombre fálico destaca su interioridad y la fidelidad por las raíces que definen al campesinado alemán (deutsche treue), puesto que la raza fálica se encuentra profundamente imbricada dentro de la nórdica. Respecto a la cultura y raza latina (Westisch) dirá que no es patrimonio exclusivo del hombre mediterráneo, sino producto de la combinación entre la viveza, la sensualidad gestual y la agilidad mental de éste con la creatividad del tipo nórdico, derivada de la productiva fertilización que los pueblos de origen indogermánico introdujeron en el sur de Europa (Rasse und Charakter).
De los tipos alpino (dunkel-ostisch) y báltico-oriental (hell-ostisch), braquimorfos y braquicéfalos, dirá que son el extremo opuesto del nórdico, tanto en sus formas corporales como en las espirituales, porque son capaces de soportar el sufrimiento y la muerte de forma indiferente, sin ningún tipo de heroísmo, pero su falta de imaginación los hace inútiles para las grandes ideas y pensamientos, en definitiva, el hombre evasivo y servicial. Curiosamente, el estudio que hace de la raza semítico-oriental –judía y árabe-, con las que se hallaba bastante involucrado personalmente, no resulta tan peyorativo, si bien coincidía con Hans F.K. Günther en que existe entre los hebreos un conflicto entre el espíritu y la carne que acaba con la victoria de esta última, con la “redención por la carne”, mientras que de los árabes destaca su fatalismo y la inspiración divina que les hace creer –como iluminados- que son los escogidos o los enviados de Dios.
Por lo demás, Clauss admitió que los diferentes estilos, al igual que sucede con los tipos étnicos, se entrecruzan y están presentes simultáneamente en cada individuo. Según Evola, «para él, dada la actual mezcla de tipos, también en materia de “razas del alma”, en lo relativo a un pueblo moderno, la raza es objeto menos de una constatación que de una “decisión”: hay que decidirse, en el sentido de seleccionar y elegir a aquel que, entre los diferentes influjos físico-espirituales presentes simultáneamente en uno mismo, a aquel que más se ha manifestado creativo en la tradición de aquel pueblo; y hacer en modo tal que, entonces una tal influencia o “raza del alma” tome la primacía sobre cualquier otra.»
No obstante lo anterior, el nordicismo ideal y espiritual de Clauss fracasó estrepitosamente porque nunca pudo superar la popularidad que tuvo el tipo ideal de hombre nórdico que Hans F.K. Günther proponía recuperar a través de los representantes más puros de la cepa germánica, si bien no como realidad, sino como una aspiración ideal, de tal forma que, finalmente, Clauss se vio apartado de todas las organizaciones del tejido nacionalsocialista a las que, desde un principio, había pertenecido.

mercredi, 20 octobre 2010

Carl Schmitt, pensador liberal

Carl Schmitt, pensador liberal: a modo de introducción

por Giovanni B. Krähe

Ex: http://geviert.wordpress.com/
 

Una de las tesis consolidadas en los estudios schmittianos es el anti-liberalismo de Carl Schmitt. Conservadores, monárquicos, católicos, filo-schmittianos “de Weimar”,  anti-schmittianos de wikipedia, ocasionalistas pro-dictadura, antifascistas etc., todos, en familia, están de acuerdo con esta tesis: Schmitt fue un anti-liberal. En este preciso punto, ambos bandos de apologetas y anti-schmittianos se demuestran de acuerdo. La pregunta que queremos poner en este post es: ¿Pero de cuál liberalismo señores? ¿contra cuál liberalismo Schmitt desarrolla su crítica? A continuación retomanos una respuesta que se dió en este blog a modo de introducción sumaria al tema.

Entre revolución nacional y religión: las cuatro tradiciones de la Sonderweg alemana

En Alemania se desarrollan cuatro diferentes tradiciones políticas: conservadora, liberal, católica y socialista. Todas nacen y se desarrollan mucho antes de la fundación del Reich alemán por Bismark (1871). Las cuatro tradiciones poseen un curioso elemento pre-estatual, pre-societario, comunitario y anti-contractualista. Estas características no las convierten en tradiciones “prematuras” o “tardías” (H. Plessner) en relación a la formación de los Estados en USA, Inglaterra o Francia. Muy al contrario. En efecto, a las características mencionadas se añaden otros dos factores históricos muy interesantes que se desarrollarán transversalmente a las cuatro tradiciones mencionadas. Estos dos factores determinarán la denominada “vía particular” (Deutscher Sonderweg):  la revolución nacional y la religión. Siempre a modo de sinopsis, mencionaremos una diferencia curiosa ulterior: el denominado “absolutismo iluminado” de los prusianos (S. XVIII). Los prusianos introducen reformas estructurales a diferentes niveles (la tolerancia religiosa por ejemplo) que la “reina de las revolución continental”, la revolución francesa, conocerá tan sólo posteriormente. Se puede notar entonces un Estado alemán de facto, ya maduro en diferentes frentes, que le faltaba únicamente la forma política del aparato estatal en su sentido moderno con soberanía única, monopolio de la fuerza y territorio unificado. Mientras en los demás casos nacionales europeos los primeros partidos asumirán el rol de la socialización política, en Alemania, en cambio, los primeros agentes de socialización política no son “partidos”, sino asociaciones (Vereine) de creyentes, dado que no hay “Estado” como unidad política hasta 1871. El fenómeno de las asociaciones (religiosas) alemanas es un fenómeno europeo  de tipo cooperativo-comunitario muy interesante para los estudios de historia comparada.

Socialización política entre imperio y reino: los movimientos nacionales de creyentes

Estos agentes de socialización política serán más bien movimientos religiosos y nacionales, en parte “aglutinados” bajo una identidad negativa (el enemigo francés), pero curiosamente forjados a partir de una sutil “ambigüedad” constitutiva muy particular: una continuidad latente con el Sacro Romano Imperio Germánico. Debido a esta continuidad, al interior de las cuatro tradiciones mencionadas todos los agentes desarrollarán un visión fuertemente a favor del modelo del Reich como unidad indivisible y fuertemente pro-unitaria. Esto último se explica en parte debido a la ausencia misma de una forma estatal. No se olvide que el Sacro Romano Imperio era casi una “forma federal” sui generis, por lo tanto las “partes” hacen referencia a un imperio, no a una forma de estados relativamente autónomos, como afirmaría la actual teoría federal por ejemplo. Tal caracter pro-unitario y pro-imperio no será, entonces, unitario únicamente en terminos de la unidad del “Estado-nación” (que no existía), sino de cada uno de estos agentes en relación a sí mismo y al Reich.  En efecto, la etimología de la palabra alemana “partido” (Partei), tuvo siempre un significado íntimamente negativo para todos los agentes que entraban por primera vez en la area política de la revolución nacional. En esta revolución nacional, no se podía ser egoísticamente “de parte” frente a la comunidad. Se cumple, según las máximas de la ética prusiana de la época, un preciso rol, se brinda un preciso servicio (Dienst), según una precisa llamada (Beruf, profesión), para ejercer una función en un preciso ámbito (Be-Reich) al interior de la comunidad espiritual del Reino (Reich). Estos agentes que las cuatro tradiciones ideológicas canalizan a través de la idea de nación y religión, generarán ese futuro sistema de partidos fuertemente orientado al formato imperial de la comunidad del Reich. Será también la misma peculiaridad que llevará a la fuerte polarización inter-partidaria que se verá después de la Primera guerra Mundial, cuando el modelo configurante del II Reich desaparece.

Esta tendencia religiosa nacional-comunitaria, basada en la defensa del Estado como principio, la comunidad política y la identidad colectiva, no es únicamente una peculiaridad de la tradición alemana católica y conservadora, como se podría imaginar rápidamente. Será también un rasgo emblemático de las otras dos familias idelógicas, la liberal y la socialista, incluída la radicalización posterior de esta última, la comunista (en su ala no internacionalista atención). Esta curiosa convergencia se debió a la tendencia general pro-unificación del Estado en su sentido moderno, que era un objetivo y tendencia transversal a las cuatro familias ideológicas. Sólo el comunismo, variante externa y espuria del socialismo alemán, asumirá una contratendencia crítica a través del internacionalismo (por lo tanto será visto como el primer enemigo). Con la derrota de la primera Guerra, los partidos que representaban estras cuatro tradiciones ideológicas (más la novedad comunista) se verán, entonces, tal cual por primera vez, es decir en términos modernos: simplemente “partidos”, organizaciones “de parte” dentro de un Estado democrático frágil. La respuesta será insólita: Ese elemento partidario fuertemente inclusivo y pro-Reich (más aún en el revanchismo de la  derrota) regresará otra vez con el totalitarismo monopartidario del Nacionalsocialismo. El temor que Schmitt ya habia previsto venir desde antes de la primera Guerra, es decir, la completa eliminación de la distinción entre Estado y cuerpo social, se cumple finalmente. Nuevamente re-emerge, entonces, de sus cenizas la tendencia pro-Reich perdida. Este perfil fuertemente de estado-partido – mutatis mutandis – no desaparecerá después de la guerra. Es el caso del denominado “Estado-de-partidos” del sistema político alemán. Este sistema posee una fuerte hegemonía de coaliciones inter-partídarias (2 partidos centrales+3 satélites) excluyentes (se habla de Alemania actual como una “democracia blindada”).

Pietismo y Reforma

Estos agentes de socialización política se irán forjando entonces al interior de una tradición política nacional-religiosa madura, cuya mencionada “ambigüedad” constitutiva se continuará reflejando especularmente ya sea a nivel de la Liga alemana (1815-16) como del pacto militar de la liga “alemana del norte” (1866), oscilante entre “liga de estados” y el “Estado unitario”. Al interior del elemento religioso mencionado no podemos olvidar un factor histórico decisivo muy anterior obviamente, pero no menos incisivo, no sólo en Alemania: los efectos políticos de la Reforma. A esta se añadirá otro factor silencioso dentro de la Reforma misma, no menos decisivo, sobre todo a nivel de los mencionados agentes de socialización política nacional-religiosos, transformados en el tiempo en  movimientos “nacional-sociales”, en cuanto agentes de socialización política . Esto último debido al increiblemente rapido proceso de modernización industrial (casi a la par sino superior a Inglaterra). Tal factor silencioso interno no menos decisivo es el Pietismus, movimiento de creyentes evangélicos anti-iluministas y anti-dogmáticos que desarrollan una mística comunitaria transversal a la Reforma, en el tiempo convertida en “religión de Estado”. El Pietismus fue una corriente evangélica “transversal”, fuertemente comunitaria (fundaban ciudades (!) de creyentes) al dogma reformista. Su núcleo más íntimo es exquisítamente místico.

El nacional-liberalismo alemán de Carl Schmitt

Dados estos elementos histórico-ideológicos weltanschaulich, se puede deducir entonces que  la tradición del liberalismo alemán que surge de este contexto es una tradición con fuertes elementos religiosos en sus primeras formas sociales, y nacional-comunitarios en su vínculo con el Estado. Este liberalismo alemán no será, por lo tanto, confundido con el liberalismo anglosajón (tal vez con la tradición conservadora whig). No hay ni un “individuo” por defender ni libertades negativas por asegurar ante un Estado (no existía tal cual). Luego de la fundación del Reich (1871) el vínculo del nacional-liberalismo alemán a favor de la forma estatal aumentará más aún: En efecto, la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán no es la defensa del individuo, sino la defensa de la relación entre la comunidad política y el Estado. En la historia del liberalismo europeo, el liberalismo alemán será sucesivamente catalogado como una “idealización” (Sartori), a través de Hegel, del Estado moderno. Este liberalismo alemán será considerado finalmente como un modelo “estado-céntrico”, para diferenciarlo del liberalismo inglés (que sería individualista-utilitarista). Bajo esta precisa tradición nacional-liberal se formará Schmitt, no menos que Max Weber. El joven Schmitt recibirá además la influencia del mencionado Pietismus, elemento que lo llevará luego a descubrir el misticismo de Franz v. Baader y los anti-iluministas franceses (Louis Claude de Saint Martin). Tales elementos “esotéricos” no serán tampoco extraños a Max Weber.

primera conclusión (tesis):

1) Como ya intuído por la escuela de Leipzig (H. Schelsky en particular), la crítica de Carl Schmitt al liberalismo es una crítica al liberalismo inglés desde la peculiaridad del nacional-liberalismo alemán (H.Preuss, Von Stein) . En la historia de la doctrinas políticas se tiene limitadamente en mente una tradición liberal anglo-americana y se desconoce la peculiaridad del liberalismo continental alemán. Desde esta perspectiva limitada, cualquier crítica no-comunista al liberalismo pasa entonces como mero anti-liberalismo,  asi como cualquier anti-comunismo, es decir, cualquier crítica no-liberal al comunismo, pasa como Fascismo. lo mismo sucede con la falacia del “anti-liberalismo” de Schmitt a secas. A partir de esta ignorancia (porque ignorancia es), se cataloga a Carl Schmitt como un pensador anti-liberal. Nosotros afirmamos: sí,  Schmitt es un pensador anti-liberal, pero contra el liberalismo inglés. El nacional-liberalismo de Schmitt podría catalogarse como una “tercera vía” hegeliana de derecha, como ya desarrollado en una traducción de un artículo de Schmitt al respecto.

mardi, 19 octobre 2010

Ordo ordinans: il carattere istitutivo del termine nomos

Ordo ordinans: il carattere istitutivo del termine nomos

Giovanni B. Krähe / Ex: http://geviert.wordpress.com/

26092631128.jpgCome sappiamo, dalla dissoluzione dell’ordinamento medioevale sorse lo Stato territoriale accentrato e delimitato. In questa nuova concezione della territorialità – caratterizzata dal principio di sovranità – l’idea di Stato superò sia il carattere non esclusivo dell’ordinamento spaziale medioevale, sia la parcellizzazione del principio di autorità (1).

Parallelamente, l’avvento dell’epoca moderna mise in atto un’autentica rivoluzione nella visione dello spazio. Questa fu caratterizzata dal sorgere, attraverso la scoperta di un nuovo mondo, di una nuova mentalità di tipo globale. In questo senso, l’evolversi del rapporto fra ordinamento e localizzazione introdusse un nuovo equilibrio tra terra ferma e mare libero, ‘‘fra scoperta e occupazione di fatto’’ (2). A questo punto ci sembra importante mettere in evidenza la specificità del rapporto che caratterizza un particolare ordine spaziale. Questo non è, come si può dedurre da una prima lettura dell’opera schmittiana, il semplice mutamento dei confini territoriali prodotto dallo sviluppo del dominio tecnico sulle altre dimensioni spaziali (terra, mare, aria o spazio globale complessivo). Ogni mutamento nei confini di queste dimensioni può determinare il sorgere di un nuovo ordinamento, di un nuovo diritto internazionale, ma non necessariamente istituire quest’ordinamento. Qui si colloca il concetto di sfida (Herausforderung) a partire dal quale, per Schmitt, una decisione politica fonda un nuovo nomos, che si sostituisce al vecchio ordinamento dello spazio (3).

Su questa via, possiamo considerare il concetto di ‘politico’ come un approccio teorico in risposta alla sfida aperta lasciata dalla fine della statualità in quanto organizzazione non conflittuale dei gruppi umani. Allo stesso modo possiamo cogliere, attraverso le trasformazioni del concetto di guerra, la proposta teorica schmittiana di una possibilità di regolazione della belligeranza. È vero poi che una decisione politica può anche risolversi in un mero rapporto di dominio egemonico, tutto centrato nella propria autoreferenzialità della sua politica di potenza. Non si può parlare in questo caso dell’emergere di un nuovo nomos in quanto il problema della conflittualità non si presenta più nei termini di una possibilità di regolazione. In questo senso, tale problema, se riferito alla guerra nell’epoca moderna, caratterizzata dalla ambiguità del principio di self-help, diventa fonte interminabile di nuove inimicizie :

“Le numerose conquiste, dedizioni, occupazioni di fatto (…) o si inquadrano in un ordinamento spaziale del diritto internazionale già dato, oppure spezzano quel quadro e hanno la tendenza – se non sono soltanto dei fugaci atti di forza – a costituire un nuovo ordinamento spaziale del diritto internazionale”(4).

Abbiamo detto che dal rapporto fra ordinamento e localizzazione può emergere un determinato ordine spaziale. La possibilità aperta di fondare, nel senso della sfida accennata da Schmitt, un nuovo ordine dipende dal carattere istitutivo della decisione politica. Il potere costituente, che da questa decisione emerge, problematizza nei suoi capisaldi il rapporto considerato implicito fra atti costituenti e istituzioni costituite, fra nomos e lex. Nella scontata sinonimia di queste due categorie fondamentali, l’autore introduce una distinzione radicale. Questa distinzione che considera l’atto fondativo di un determinato ordine spaziale attraverso la specificità pre-normativa della decisione politica è il carattere istitutivo del termine nomos (5). Questa caratteristica pre-normativa del nomos non va intesa nel senso di un diritto primitivo anteriore all’ordinamento della legalità statale, ma all’interno di una pluralità di tipi di diritto. In questa prospettiva, la norma, che c’è alla base del diritto positivo – costituito, a sua volta, sull’effetività materiale di un spazio pacificato – si colloca, all’interno di questa pluralità.

Per Schmitt, tuttavia, il nomos “è un evento storico costitutivo, un atto della legittimità che solo conferisce senso alla legalità della mera legge” (6). Di questa opposizione tra nomos e lex ripresa più volte dall’autore non ci occupiamo in questa sede, in quanto essa puó essere intesa come un unico processo a carattere ordinativo. Questo processo che viene generalmente operato dalla norma, è già, tra l’altro, implicito nello stesso nomos (7) . Piuttosto, ció che ci interessa sottolinerare all’interno di questo processo ordinativo è la collocazione del concetto di guerra. Cosí, in termini moderni, se il carattere istitutivo del termine nomos – nel senso di un ordo ordinans imperiale o federale come accennato da A. Panebianco – determina l’inizio di un unico processo strutturante fra ordinamento e localizzazione, allora la conflittualitá puó essere regolamentata, se collocata all’interno di questo processo. In questo senso, le odierne categorie del diritto internazionale sorte dal principio dello jus contra bellum (come, ad esempio, i crimini di guerra oppure i crimini contro l’umanitá) non solo non risolvono il problema dichiarando la guerra “fuori legge”, ma riducono le regolazioni della belligeranza a meri atti di polizia internazionale.

Note

(¹) La non esclusività risiedeva nella sovrapposizione di diverse istanze politico-giuridiche all’interno di uno stesso territorio. Cfr. John Gerard Ruggie, Territoriality and beyond: problematizing modernity in international relations, in “International Organization”, n. 47, 1, Winter 1993, p. 150.

(2) Carl Schmitt, Il nomos della terra (1950), Adelphi, Milano, 1991, p. 52.

(3) Cfr. ivi, p.75; vedi inoltre Carl Schmitt, Terra e Mare, Giuffrè, Milano, 1986, pp. 63-64 e pp. 80-82; sul concetto di sfida vedi la premessa (1963) a Id., Le categorie del ‘politico’, cit., pp. 89-100 in: Carl Schmitt:  Il concetto di ‘politico’ (1932), in Id., Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972.

(4)  Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 75; sul ruolo dell’America fra egemonia e nomos cfr. lo scritto Cambio di struttura del diritto internazionale (1943), pp. 296-297 e L’ordinamento planetario dopo la seconda guerra mondiale (1962), pp. 321-343 in Carl Schmitt, L’unità del mondo e altri saggi a cura di Alessandro Campi, Antonio Pellicani Editore, Roma, 1994.

(5) Sulla distinzione schmittiana tra nomos e lex si veda Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., pp. 55-62. La problematicità che introduce questa distinzione, per quanto riguarda l’ordinamento giuridico interno allo Stato, è stata sviluppata dall’autore in Legalità e legittimità, in Id., Le categorie del ‘politico’ cit., p. 223 ss.

(6) Carl Schmitt, Il nomos della terra, cit., p. 63.

(7) Sul carattere processuale specifico del termine nomos si veda Appropiazione/Divisione/Produzione (1958), in C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’ cit., p. 299 ss., e Id., Nomos/Nahme/Name (1959), in Caterina Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso. A.Pellicani Editore, Roma, 1999.

mercredi, 13 octobre 2010

Nietzsche contra Wagner - Etica contra estética

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NIETZSCHE CONTRA WAGNER

ÉTICA CONTRA ESTÉTICA

Sebastian J. Lorenz
 
Con sus concepciones sobre la “voluntad de poder”, su visceral anti-cristianismo –que consideraba una creación del judaísmo-, sus anuncios sobre el advenimiento del “super-hombre” (Übermensch) y la formación de una casta aristocrática superior, Nietzsche es, sin lugar a dudas, el filósofo más determinante en la construcción ideológica del nazismo y, desde luego, un pilar fundamental en la formación intelectual de Hitler, el cual, según la opinión mayoritaria, se apropió de la doctrina nietzscheana para legitimar su nueva concepción del mundo, si bien podemos adelantar que, colocado en la disyuntiva entre Nietzsche y Wagner, el Führer nunca ocultó su admiración por la Weltanschaung de este último, mucho más acorde con sus ideales estéticos.
La importancia de la filosofía de Nietzsche en la formación de la ideología nazi no es un tema pacífico. César Vidal, que no alberga dudas sobre la conexión nietzscheana con el nazismo, examina la exposición que efectúa Nietzsche sobre la antítesis entre una “moral de señores”, aristocrática, y una “moral de esclavos”, de resentimiento, correspondiendo la primera a los valores superiores de las razas germánicas, y la segunda a la moral judeo-cristiana (Judea contra Roma). Otros, como Ferrán Gallego, consideran que la manipulación del filósofo sólo pudo realizarse ejerciendo una profunda violencia sobre el sentido de la obra de Nietzsche. «A sabiendas de que nunca conseguirían ponerse a la altura de Nietzsche, se resignaron a falsificar la de Zaratustra».
El “mensajero del nihilismo” fue, desde luego, un predicador militante contra el orden caduco y la moral convencional, pero lo hacía desde un profundo individualismo que se oponía a las distintas formas de dominio ejercidas sobre las masas con el oscuro objetivo de anular toda personalidad. «Los buenos conocedores de la cultura alemana rechazaron la caricatura de un Nietzsche pangermanista, oponiendo su feroz individualismo a las tesis nacionalistas raciales que desembocarían en el nazismo». De hecho, Nietzsche sentía un auténtico desprecio por la cultura alemana de su tiempo, admirando en cambio la rusa, la francesa, la italiana, la española y, especialmente, la cultura clásica grecolatina, pero las alabanzas dedicadas a las bestias rubias germánicas de los vándalos y los godos fueron finalmente manipuladas por los teóricos nacional-racistas.
Desde luego, no cabe duda alguna de que Nietzsche identificaba al hombre ario y a la bestia rubia con la nobleza y la aristocracia, con la moral de señores propia de los conquistadores, si bien resultaría desproporcionado identificar a los arios rubios con su prototipo de hombre superior. Sin embargo, el filósofo utiliza comparativamente a las razas oscuras y a las razas rubias para distinguir lo malo y lo vulgar de los hombres de rasgos oscuros –los pre-arios en Europa- de lo noble y lo aristocrático que define, según él, al hombre ario. «Resulta imposible no reconocer, en la base de todas estas razas nobles, al animal de rapiña, la magnífica bestia rubia que vagabundea codiciosa de botín y victoria», escribirá Niezstche, reconociendo además «el derecho a no librarse del temor a la bestia rubia que habita en el fondo de todas las razas nobles …». Pues es “la bestia rubia”, una horda de hombres depredadores y conquistadores, el sinónimo de grandeza y nobleza.
Nietzsche utiliza su “bestia rubia” para enfatizar y ejemplarizar la antítesis entre la «humanidad aria, totalmente pura, totalmente originaria» y el «cristianismo, brotado de la raíz judía, que representa el movimiento opuesto a toda moral de la cría, de la raza, del privilegio: es la religión antiaria per excellence …», para finalizar con una inquietante duda sobre el futuro de la supuesta raza aria: «¿Quién nos garantiza … que la raza de los conquistadores y señores, la de los arios, no está sucumbiendo incluso fisiológicamente?». El filósofo alemán se remonta, obviamente, a la civilización indo-aria para ejemplarizar su sistema jerárquico racial, en cuya cúspide sitúa a la “bestia rubia” germánica, antítesis de los representantes degenerados del judeo-cristianismo, dividiendo su sociedad ideal en “brahmanes”, guerreros y sirvientes, además de los “chandalas”.
En definitiva, una sociedad elitista y aristocrática basada en la desigualdad que debe asumir la raza germánica frente a la mediocridad impuesta por el cristianismo, “hijo espiritual del judaísmo”. Nietzsche anuncia el “nuevo hombre” aristocrático, anticristiano, antijudío, que sólo responde a su “voluntad de poder”, el hombre sobrehumano que es, en realidad, el hombre superado en una evolución ascendente. Por eso, Hitler dirá tiempo después que el nacionalsocialismo no es un movimiento político, ni siquiera una religión, sino “la voluntad de crear un nuevo hombre”.
Nietzsche no fue propiamente un antisemita, si bien su inicial relación-admiración por Wagner le hizo alabar su visión espiritual de la vida, de la que los alemanes corrientes habían sido arrebatados por la mísera y agresiva política del judaísmo. Desde luego, el filósofo consideraba la ética judía como una “moral de esclavos” (Sklaven-Moral), el pueblo del que Tácito pensaba que había nacido para la esclavitud, siendo manifestaciones de la misma el cristianismo y el socialismo que propugnan la igualdad. Por eso, el judío se rebela contra las razas aristocráticas: «Roma vio en el Judío la encarnación de lo antinatural, como una monstruosidad diametralmente opuesta a ella, y en Roma fue hallado convicto de odio a toda la raza humana y con toda la razón para ello, por cuanto es correcto enlazar el bienestar y el futuro de la raza humana a la incondicional supremacía de los valores aristocráticos, de los valores romanos». Los judíos, según Nietzsche, habían falseado de tal forma la historia universal y los valores de la humanidad, que incluso resultaba inconcebible que el cristiano albergase sentimientos antijudíos: “Dios mismo se ha hecho judío!”.
El pensamiento aristocrático se confunde, en numerosas ocasiones, con el determinismo biológico que clasifica jerárquicamente a las razas según unos supuestos cánones creativos. La nueva raza de los super-hombres, la raza superior procedería –mediante el dominio de la voluntad- a la transmutación de los valores, creando otros nuevos que regirían para sí mismos y para las razas destinadas a la esclavitud. Nietzsche estaba de acuerdo con Gobineau, Wagner y Chamberlain, cuando calificaba la raza aria como “raza genuina, fisiológicamente superior a las otras razas y hecha para gobernarlas”. «Toda elevación del tipo “hombre” ha sido siempre obra de una sociedad aristocrática y así será siempre … una sociedad creyente en una larga escala de graduaciones de rango y diferencias en una forma u otra».
Como se ha apuntado, Nietzsche y Wagner, una vez superado su idilio artístico inicial, mantuvieron un crudo enfrentamiento ideológico, controversia que luego se reproduciría, en el seno del nacionalsocialismo, entre los seguidores del filósofo y del compositor, aunque sería la doctrina nietzscheana la que obtendría la mayoría de adhesiones, puesto que la concepción del mundo wagneriana se refugió en restringidos círculos intelectuales y artísticos que le restaron popularidad en la Alemania nazi, pese a contar con el apoyo incondicional del propio Hitler. Mientras Rosenberg, Darré o Himmler rechazaban la visión ética y mística del compositor y utilizaban el “superhombre” de Nietzsche para justificar el sometimiento de los más débiles –cruel filosofía que tuvo nefastas consecuencias en las generaciones de la época- los minoritarios círculos wagnerianos hacían de la compasión de los fuertes hacia los menos dotados una virtud ennoblecedora.

mardi, 12 octobre 2010

Carl Schmitt: A Dangerous Man

Carl Schmitt (part IV)

 A Dangerous Man

by Keith PRESTON
 
 
Carl Schmitt (part IV)
 

When Hitler first came to power, Carl Schmitt hoped that President von Hindenburg would be able to control him, and dismiss him from the chancellor’s position if necessary. But within days of becoming chancellor, Hitler invoked Article 48 and began imposing restrictions on the freedoms of speech, press, and assembly. Within a month, all civil liberties had essentially been suspended. Within two months, a Reichstag dominated by the Nazis and their allies (with the communists having been purged and subject to repression under Hitler’s emergency measures) passed the Enabling Act, which, more or less, gave Hitler the legal right to rule by decree. The Enabling Act granted Hitler actual legislative powers, beyond the emergency powers previously provided for by Article 48. Schmitt regarded the Enabling Act as amounting to the overthrow of the constitution itself and the creation of a new constitution and a new political and legal order.

The subsequent turn of events in Schmitt’s life remains the principal, though certainly not exclusive, source of controversy regarding Schmitt’s ideas and career as a public figure and intellectual. Schmitt remained true to his Hobbesian view of political obligation that it is the responsibility of the individual to defer to whatever political and legal authority that becomes officially constituted. On May 1, 1933, Carl Schmitt officially joined the Nazi Party.

Despite his past as an anti-Nazi, Schmitt’s prestigious reputation as a jurist and legal scholar heightened his value to the party. Herman Goering appointed Schmitt to the position of Prussian state councilor in July, 1933. He then became leader of the Nazi league of jurists and was appointed to the chair of public law at the University of Berlin. While occasionally including a racist or anti-Semitic comment in his writings and lectures during this time, Schmitt also hoped to strike a balance between Nazi ideology and his own more traditionally conservative outlook.

Schmitt’s hopes for such a balance were dashed by the Night of the Long Knives purge on June 30, 1934. Not only were hundreds of Hitler’s potential rivals within the party killed, but so were a number of prominent conservatives, including Schmitt’s former associate, General Kurt von Schleicher. Even Papen, who had initially been vice-chancellor under the Hitler regime, was placed under house arrest.

In response to the purge, Schmitt published the most controversial article of his career, “The Fuhrer Protects the Law.” On the surface, the article was merely a sycophantic and opportunistic effort at defending Hitler’s brutality and lawlessness. While Schmitt likely regarded the killing of rival Nazis as little more than a dishonorable falling out among thugs, he also included within the article subtle references to unjust murders that had been committed during the course of the purge, meaning the killing of his friend General Schleicher and others outside Nazi circles, and urged justice for the victims. The wording of the article pretended to absolve Hitler of responsibility while dropping very discreet and coded hints to the contrary.

Though Schmitt enjoyed the protection afforded to him by his associations with Goering and Hans Frank, he never exerted any influence over the regime itself. The purge of the SA leadership had the effect of empowering within the Nazi movement one of its most extreme elements, the SS. The SS soon concerned itself with the presence of “opportunists” and the ideologically impure elements, which had joined the party only after the party had seized power for the sake of being on the winning side. These elements included many middle-class persons and ordinary conservatives whose actual commitment to the party’s ideology and value system were questionable.

Schmitt was a prime example of these. His efforts to revise his theories to make them somewhat compatible with Nazi ideology were subject to attacks from jurists committed to the Nazi worldview. Further, former friends, professional associates, and students of Schmitt who had emigrated from the Third Reich were incensed by his collaboration with the regime and began publishing articles attacking him from abroad, pointing out his anti-Nazi past during his association with Schleicher, his prior associations with Jews, his Catholic background, and the fact that he had once referred to Nazism as “organized mass insanity.”

Schmitt attempted to defend himself against these attacks by becoming ever more virulent in his anti-Semitic rhetoric. When the Nuremberg Laws were enacted in September of 1935, he defended these laws publicly. His biographer Bendersky described the political, ethical, and professional predicaments Schmitt found himself in during this time:

No doubt at the time he tried to convince himself that he was obligated to obey and that as a jurist he was also compelled to work within the confines of these laws. He could easily rationalize his behavior with the same Hobbesian precepts he had used to explain his previous compromises. For he always adhered to the principle Autoritas, non veritas facit legem (Authority, not virtue makes the law), and he never tired of repeating that phrase. Authority was in the hands of the Nazis, their racial ideology became law, and he was bound by these laws.

Schmitt further attempted to counter the attacks hurled at him by both party ideologues and foreign critics by organizing a “Conference on Judaism in Jurisprudence” that was held in Berlin during October of 1936. At the conference, he gave a lecture titled “German Jurisprudence in the Struggle against the Jewish Intellect.” Two months later, Schmitt wrote a letter to Heinrich Himmler discussing his efforts to eradicate Jewish influence from German law.

Yet, the attacks on Schmitt by his party rivals and the guardians of Nazi ideology within the SS continued. Schmitt’s public relations campaign had been unsuccessful against the charges of opportunism, and Goering had become embarrassed by his appointee. Goering ordered that public attacks on Schmitt cease, and worked out an arrangement with Heinrich Himmler whereby Schmitt would no longer be involved with the activities of the Nazi party itself, but would simply retain his position as a law professor at the University of Berlin. Essentially, Schmitt had been politically and ideologically purged, but was fortunate enough to retain not only his physical safety but his professional position.

For the remaining years of the Third Reich, Schmitt made every effort to remain silent concerning matters of political controversy and limited his formal scholarly work and professorial lectures to discussions of routine aspects of international law or vague and generalized theoretical abstractions concerning German foreign policy, for which he always expressed outward support.

Even though he was no longer active in Nazi party affairs, held no position of significance in the Nazi state, and exercised no genuine ideological influence over the Nazi leadership, Schmitt’s reputation as a leading theoretician of Nazism continued to persist in foreign intellectual circles. In 1941, one Swiss journal even made the extravagant claim that Schmitt had been to the Nazi revolution in Germany what Rousseau had been to the French Revolution. Schmitt once again became fearful for his safety under the regime when his close friend Johannes Popitz was implicated and later executed for his role in the July 20, 1944, assassination plot against Hitler (though, in fact, Schmitt himself was never in any actual danger.)

When Berlin fell to the Russians in April 1945, Schmitt was detained and interrogated for several hours and then released. In November, Schmitt was arrested again, this time by American soldiers. He was considered a potential defendant in the war crimes trials to be held in Nuremberg and was transferred there in March 1947. In response to questions from interrogators and in written statements, Schmitt gave a detailed explanation and defense of his activities during the Third Reich that has been shown to be honest and accurate. He pointed out that he had no involvement with the Nazi party after 1936, and had only very limited contact with the party elite previously. Schmitt provided a very detailed analysis and description of the differences between his own theories and those of the Nazis. He argued that while his own ideas may have at times been plagiarized or misused by Nazi ideologists, this was no more his responsibility than Rousseau had been responsible for the Reign of Terror. The leading investigator in Schmitt’s case, the German lawyer Robert Kempner, eventually concluded that while Schmitt may have had a certain moral culpability for his activities under the Nazi regime, none of his actions could properly be considered crimes warranting prosecution at Nuremberg.

Schmitt’s reputation as a Nazi, and even as a war criminal, made it impossible for him to return to academic life, and so he simply retired on his university pension. He continued to write on political and legal topics for another three decades after his release from confinement at Nuremberg, and remained one of Germany’s most controversial intellectual figures. For some time, his pre-Nazi works were either ignored or severely misinterpreted. A number of prominent left-wing intellectuals, including those who had been directly influenced by Schmitt, engaged in efforts at vilification.

An objective scholarly interest in Schmitt began to emerge in the late 1960s and 1970s, even though Schmitt’s reputation as a Nazi apologist was hard to shake. Interestingly, the framers of the present constitution of the German Federal Republic actually incorporated some of Schmitt’s ideas from the Weimar period into the document. For instance, constitutional amendments that alter the basic democratic nature of the government or which undermine basic rights and liberties as outlined in the constitution are forbidden. Likewise, the German Supreme Court may outlaw parties it declares to be anti-constitutional, and both communist and neo-Nazi parties have at times been banned.

Schmitt himself returned to these themes in his last article published in 1978. In the article, Schmitt once again argued against allowing anti-constitutional parties the “equal chance” to achieve power through legal and constitutional means, and expressed concern over the rise of the formally democratic Eurocommunist parties in Europe, such as those in Italy and Spain, which hoped to gain control of the state through ordinary political channels.

 

Schmitt’s Contemporary Relevance

 

The legacy of Schmitt’s thought remains exceedingly relevant to 21st-century Western political and legal theory. His works from the Weimar period offer the deepest insights into the inherent weaknesses and limitations of modern liberal democracy yet to be discussed by any thinker. This is particularly significant given that belief in liberal democracy as the only “true” form of political organization has become a de facto religion among Western political, cultural, and intellectual elites. Schmitt’s writings demonstrate the essentially contradictory nature of the foundations of liberal democratic ideology. The core foundation of “democracy” is the view that the state can somehow be a reflection of an abstract “peoples’ will,” which, somehow, rises out of a mass society of heterogeneous individuals, cultural subgroups, and political interest groups with irreconcilable differences.

This is clearly an absurd myth, perhaps one ultimately holding no more substance than ancient beliefs about emperors having descended from sun-gods. Further, the antagonistic relationship between liberalism and democracy recognized by Schmitt provides a theoretical understanding of the obvious practical truth that as democracy has expanded in the West, liberalism has actually declined. The classical liberal rights of property, exchange, and association, for instance, have been severely comprised in the name of creating “democratic rights” for a long list of social groups believed to have been excluded or oppressed by the wider society. The liberal rights of speech and religion have likewise been curbed for the ostensible purpose of eradicating real or alleged “bigotry” or “bias” towards former out-groups favored by proponents of democratic ideology.

The contradictions between liberalism and democracy aside, Schmitt’s work likewise demonstrates the ultimately self-defeating nature of liberalism taken to its logical conclusion. A corollary of liberalism is universalism, yet liberal universalism likewise contradicts itself. Liberalism, as Westerners have come to understand it, is a particular value system rooted in historic traditions and which evolved within a particular civilization and was affected by historical contingencies (the Protestant Reformation, the Enlightenment, and Modernism being only the most obvious.)

Schmitt’s definition of the essence of the political as the friend/enemy dichotomy simultaneously exposes the limitations of liberalism’s ability to sustain itself. Robert Frost’s quip about a liberal being someone who is unable to take his own side in a fight would seem to apply here. The principal weakness of liberalism is its inability to recognize its own enemies. Even in the final months of the Weimar republic, liberals, socialists, and even Catholic centrists held so steadfastly to the formalities of liberalism that they were unable to perceive the imminent destruction of liberalism that lurked a short distance ahead.

This insight of Schmitt would seem to go a long way towards explaining the behavior of many present day zealots of Liberal Democratic Fundamentalism. It is currently the norm for liberals to react with a grossly exaggerated, almost phobic, sense of urgency concerning the supposed presence of elements espousing “racism,” “fascism,” “homophobia,” and other illiberal or ostensibly illiberal ideas in their own societies. In virtually all Western countries, elements espousing the various taboo “isms” and “phobias” with any degree of seriousness are marginal in nature, often merely eccentric individuals, tiny cult-like groups, or politically irrelevant subcultures.

And yet, liberals who become hysterical over “fascism,” typically express absolutely no concern about the importation of unlimited numbers of persons from profoundly illiberal cultures into their own nations. Indeed, criticizing such things has itself become a serious taboo among liberals, who somehow believe that such values as secularism, feminism, and homosexual rights can never be threatened by the mass immigration of those from cultures with no liberal tradition, where theocratic rule is the norm, or where the political and social status of women has not changed in centuries or even millennia, where there is no tradition of free speech, where capital punishment is regularly imposed for petty offenses, and where homosexuality is often considered to be a capital crime.

A related irony is that liberals have embraced “Green” consciousness in a way comparable to the enthusiasm and adulation shown to pop music stars by teenagers, while remaining oblivious to the demographic and ecological consequences of unlimited population growth fueled by uncontrolled immigration.

Schmitt’s steadfast opposition to legal formalism as a method of constitutional interpretation and as an approach to legal theory in general is also interesting when measured against the standard complaints about “judicial activism” found among “mainstream” American conservatives. Schmitt’s view that laws, even constitutional law itself, should be interpreted according to the wider essence or deeper substance of the laws and constitutions in question and according to the concrete realities of specific political situations would no doubt make a lot of American conservatives uncomfortable. Of course, an important distinction has to be made between Schmitt’s seemingly open-ended approach to legal theory and the standard ideas about a “living constitution” found among American liberal jurists. Schmitt was concerned with the very real and urgent question of the need to preserve civil order and political stability in the face of severe social and economic crisis, civil unrest, and threats of revolution, whether through direct violence or cynical manipulation of ordinary political and legal processes. The various legal theories involving a supposed “living constitution” or “evolving standards” advanced by American liberals represents the far more dubious project of simply replacing the traditional Montesquieu-influenced American constitution with an ostensibly more “progressive” democratic socialist one.

That said, one has to wonder if it would not be appropriate for American anti-liberals to initiate an ideological move away from advocating strict adherence to the principle of legal or judicial neutrality towards a perspective that might be called “defensive judicial activism,” e.g. the advocacy of the use of the courts at every level to resist the encroachments of the present therapeutic-managerial-multiculturalist-welfare state in the same manner that liberals have used the courts to impose their own extra-legislative agenda. This would be an approach that is more easily discussed than implemented, of course, but perhaps it is still worthy of discussion nevertheless.

The political theory of Carl Schmitt likewise aids the development of a more thorough understanding of the nature of the state itself. Contrary to the prevailing view that political rule can be rooted objectively in sets of formal legal rules and institutional procedures, or that the state can be a mere reflection of the idealized abstraction of “the people,” Schmitt recognized that ultimately political rule is based on the question of “Who decides?” Ideological pretenses to the contrary, there will be a “sovereign” (whether an individual or a group) who possesses final authority as to what the rules will be and how they will be interpreted or applied.

Schmitt’s friend/enemy thesis likewise contains the recognition that the prospect of lethal violence defines the essence of politics. Political rule is about force, and about possessing the ability to exercise the necessary amount of physical violence to maintain a system of rule. The truth of these observations and of Schmitt’s broader critique of liberalism and democracy do not by themselves eliminate the problematical nature of Schmitt’s own Hobbesian outlook. Clearly, Schmitt’s own life and career illustrate the limitations of such a view. Indeed, after his purge by the Nazis, Schmitt reflected on Hobbes more extensively and modified his views on political obligation somewhat. He concluded that political obligation must be reciprocal in nature. Hobbes taught that the individual was obligated to obey political authority for the sake of his own protection. Schmitt argued in light of the Nazi experience that the individual’s obligation of obedience is negated when the state withdraws its protection. Schmitt’s concern with the primacy of order and stability could well be summarized by the Jeffersonian principle that “prudence, indeed, will dictate that governments long established should not be changed for light and transient causes.”

Yet, there is the wider question of the matter whereby the malignant nature of a particular state is such that the state not only fails to provide protection for the individual but threatens the wider culture and civilization itself, a situation for which Dr. Samuel Francis coined the term “anarcho-tyranny.” Clearly, in such a scenario, it will seem that the obligation of political obedience, individually or collectively, becomes abrogated.

Keith Preston